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Crisi da Coronavirus e strategie di resilienza dell’impresa

Profilo redazionale della testata giornalistica.

Crisi da Coronavirus e strategie di resilienza dell’impresa

L’espressione resilienza, mutuata dalla tecnologia dei materiali, indica la capacità di fronteggiare in maniera positiva eventi traumatici. La capacità di riorganizzare efficacemente la vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che l’evento dinamico dell’esistenza offre senza, si badi bene, alienare la propria identità.

di Francesco Fimmanò

 

1. L’espressione resilienza è mutuata dalla tecnologia dei materiali intesa come attitudine degli stessi ad assorbire energia in conseguenza delle deformazioni elastiche e plastiche fino alla rottura. Nel nostro caso indica la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare efficacemente la vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che l’evento dinamico dell’esistenza offre senza, si badi bene, alienare la propria identità.

Sono resilienti quelle persone e quelle imprese che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria organizzazione e persino a raggiungere mete importanti ed imprevedibili prima degli eventi negativi.

L’era del coronavirus produrrà sul piano economico quanto accaduto in situazioni analoghe nella recente storia dell’umanità, solo con una gravità ed una rapidità esponenziale generata dalla globalizzazione, esattamente come si sta verificando per l’emergenza sanitaria.

La vicenda determinerà una grande crisi economica non strutturale che, come nei cicli storici precedenti, produrrà poi grande sviluppo per quei Paesi e quelle Imprese che abbiano saputo usare un approccio “resiliente”.

Affinché vi sia resilienza, è tuttavia richiesta una strategia preventiva e, al contempo, una strategia reattiva, alle quali devono corrispondere drivers consolidati e non assetti completamenti nuovi, come ad esempio quelli delineati dal “Codice della crisi e della insolvenza”, la cui entrata in vigore, a nostro avviso, va rinviata al futuro, neppure prossimo. D’altra parte il segnale è già arrivato dal rinvio per decreto di alcune parti e per alcune imprese della nuova normativa, specie per quanto concerne l’allerta, i cui indici sono inevitabilmente deformati dalla situazione eccezionale, che si somma alle già note criticità manifestate per l’attuazione delle misure da parte di imprese ancora non ben organizzate al riguardo e che dovranno indirizzare le proprie energie cognitive ad altro.

La resilienza in casi del genere è appunto di tipo “cognitivo” e richiede  un contesto normativo ed identitario consolidato in quanto occorre riadattare l’esperienza e la conoscenza consolidata. Si tratta della capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo una dimensione che renda possibile la propria struttura rendendola “invulnerabile”.

Vi sono processi economici e sociali che, in conseguenza del trauma costituito da una catastrofe, cessano di svilupparsi restando in una continua instabilità e, alle volte, addirittura collassano, estinguendosi; in altri casi, al contrario, sopravvivono e, anzi, proprio in conseguenza del trauma, con funzioni catartiche, trovano la forza e le risorse per una nuova fase di crescita e di affermazione in quanto capaci di programmare e gestire la reazione e talora persino la mutazione genetica.

Ma proviamo ad immaginare una strategia di resilienza specie per quelle imprese sane, che all’improvviso hanno perduto le proprie certezze e la dinamica dei propri cicli produttivi (e finanziari) e che non solo possono trovarsi sul baratro dell’incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni ma divenire facili prede, a prezzi da saldo, di altre imprese concorrenti, specie straniere. Un processo di adattamento dinamico – che consenta agli imprenditori di continuare a guardare al futuro nonostante le difficili condizioni del mercato e nonostante le circostanze terribili che si vedono costretti ad affrontare – può persino passare attraverso scelte apparentemente drammatiche, in realtà catartiche, come l’auto-fallimento.

Questa capacità di “rimbalzo” di fronte alla inimmaginabile avversità dipende dalle risorse organizzative dell’imprenditore, dalla tempestività, dalla sua interazione con l’ambiente e dalla lucidità nel disvelare tutta la c.d. piramide degli eventi che hanno concorso a danneggiare il sistema, arrivando alla base e sanando non solo gli eventi anomali, ma anche quelli che potrebbero diventarlo.

Per eliminare tutte le inefficienze di una crisi improvvisa e devastante, ossia quelle ex ante dei c.d. gatekeepers, quelle intermedie in cui si commettono i principali errori e quelle ex post delle procedure concorsuali di durata e costi incompatibili con la riallocazione dei valori aziendali, occorre innanzitutto segregare tempestivamente il complesso produttivo in modo che sia funzionante e funzionale ad altro soggetto giuridico che abbia il medesimo assetto proprietario mediante un affitto virtuoso dell’azienda o di suoi rami, subito dopo richiedere l’auto-fallimento da parte del soggetto giuridico locatore ed infine realizzare ad opera dell’affittuario un concordato fallimentare diretto all’acquisto dell’azienda o, meglio ancora, alla fusione semplificata con la società tornata in bonis.

Il programma può avere nel suo sviluppo della varianti di “second best” che tuttavia non ne mutano la ratio complessiva che è quella di separare subito le passività dall’attività di impresa che deve proseguire con una strategia di contenimento delle morti delle imprese, laddove il fallimento della società meramente locatrice non determina chiusure di esercizi economici.

Il tutto in modo da avere una sorta di start up  dotata però dell’intero corredo aziendale e cognitivo consolidato ma priva di debiti e pendenze da allocare in una bad company destinata alla lenta liquidazione od all’immediato fallimento.

Questo programma vale soprattutto per le imprese sane che abbiano subìto per effetto di traumi congiunturali, come quello della pandemia, un improvviso arresto del ciclo finanziario e produttivo e per le quali la velocità di reazione basata sulla conoscenza dell’azienda ed il mercato di riferimento siano decisivi. In questi casi l’asimmetria informativa ed il plusvalore dato dalla continuità aziendale (spesso sottovalutato) acquistano un ruolo diverso da quello ordinario che può essere valorizzato da norme speciali, ma che cercheremo di incanalare già nell’attuale assetto normativo, a partire dalla interpretazione evolutiva dell’art. 124 comma 1, ult. parte, sulla legittimazione temporale alla presentazione di una proposta di concordato fallimentare.

Nello speciale quadro fattuale delineato, questa forma di circolazione sui generis dell’azienda, per una serie di circostanze, configura una situazione tipo in cui l’interesse dell’economia alla continuità, alla salvaguardia dei valori produttivi e dell’occupazione può armonizzarsi con l’interesse dei creditori.

 

2. L’affitto di azienda stipulato dall’imprenditore ancora in bonis, al fine contrattualmente dichiarato di segregare il complesso produttivo dai debiti, è un’operazione che la giurisprudenza ha avallato, tant’è che il codice della crisi e della insolvenza l’ha espressamente previsto come modalità di continuità indiretta nel concordato preventivo a norma dell’art. 84 comma 2, tacitando l’annoso dibattito.

In verità si è registrata in passato una generalizzata tendenza a considerarlo comunque “distrattivo” o “depauperativo” di per sé. Viceversa, a nostro avviso, esistono da un lato tutti gli strumenti per sanzionarne l’abuso realizzato in violazione dei criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria della crisi, mentre dall’altro lato deve esserne valorizzato ed incentivato l’uso virtuoso specie in una situazione eccezionale come quella prodotta dalla vicenda “coronavirus” che può determinare una oggettiva ed incolpevole impossibilità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.

Il fatto che lo strumento venga strategicamente inserito in un piano, che eventualmente anticipi e suggerisca il programma di liquidazione del curatore, non fa certo smarrire all’istituto la sua tipicità, così come concepita dall’ordinamento. L’occasione da cui trae origine il contratto e le ragioni programmatiche dello stesso non incidono sugli elementi essenziali che rimangono quelli “propri” di un affitto di azienda.

Gli eventuali abusi od asimmetrie  non incidono sulla causa e sulla qualificazione del negozio, ma al contrario possono determinare una sperequazione nell’assetto degli interessi sicuramente valutabile dal curatore nel recedere o dal giudice delegato nel non riconoscere l’indennizzo previsto dalla legge. Strumenti di cui gli organi della procedura sono dotati e che appunto devono indurre il debitore a concepire un assetto programmatico virtuoso laddove voglia perseguire il programma delineato e che comunque escludono che ogni intento distrattivo possa realizzarsi o addirittura concepirsi, proprio in quanto dichiarato.

Infatti la riforma del 2006, nell’uscire dall’agnosticismo normativo che aveva riguardato la materia, ha non solo dato all’azienda, al ramo (e persino all’universalità di beni aziendali non costituenti compendio autonomo) una centralità nelle norme sulla liquidazione riallocativa dell’attivo (artt. 104 ss.), ma ha affrontato espressamente anche la questione del contratto di affitto preesistente, introducendo lo strumento spartiacque del recesso.

L’art. 79, l. fall., sancisce che “il fallimento non è causa di scioglimento del contratto di affitto d’azienda, ma entrambe le parti possono recedere entro sessanta giorni, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo, che, nel dissenso tra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. L’indennizzo dovuto dalla curatela è regolato dall’articolo 111, n. 1”.

Il legislatore, in realtà, ha preso atto che il fenomeno ha un particolare rilievo in sede concorsuale in quanto  il contratto può essere stipulato dall’imprenditore in crisi nell’ambito di un programma diretto a “lasciare” i debiti alla procedura ed a permettere la prosecuzione dell’attività d’impresa ad una persona giuridica terza, anche con il medesimo assetto proprietario. E lo ha regolamentato proprio al fine di neutralizzarne ogni valenza distrattiva e gli organi della procedura (e aggiungerei i pubblici ministeri) devono coglierne la valenza decisiva e distinguere bene e con la doverosa sensibilità la fisiologia dalla potenziale patologia che è stata praticamente disinnescata col recesso legale che può essere accompagnato da pressochè automatici provvedimenti cautelari.

Tale programma può essere infatti concepito in modo virtuoso,  dichiarato e “resiliente”, al fine di consentire una gestione ponte propedeutica ad evitare soluzioni di continuità dell’attività economica sullo sfondo di una definizione concordataria (preventiva o appunto fallimentare) della crisi, od in modo “abusivo” o persino “simulato”, al fine semplicemente di sottrarre alla massa le scelte di gestione dell’impresa e conseguentemente di amministrazione del patrimonio fallimentare, con un canone inadeguato e clausole contrattuali sfavorevoli alla curatela, quale prospettico avente causa .

La espressa disciplina della fattispecie dettata dalla legge fallimentare vigente accentua la prima opzione di utilizzo tipico, in funzione di una rapidissima definizione concordataria (a guisa di bad company), garantita eventualmente dal prezzo di vendita dell’azienda all’affittuario oltre che dai canoni di locazione, come mera variante alternativa al modello base. Si è evidenziato che “ristrutturazione e infungibilità sono due facce della stessa medaglia, in altri termini, e ad essa mal si attaglia la rigidità della procedura selettiva basata su una gara le cui regole siano preformalizzate, spesso al buio, dagli organi concorsuali. La regola, nondimeno, è vincolante in funzione di una ideologica concezione dell’interesse dei creditori, benché, alla prova pratica, essa possa in concreto rivelarsi assai più pregiudizievole che non conveniente per gli stessi creditori in quanto capace di accentuare la leva della speculazione al ribasso sul prezzo e l’esclusione degli organi della procedura dall’area delle decisioni future che, aggiudicatasi l’azienda, l’acquirente compirà in beata solitudine”.

Tutto ciò anche in considerazione del fatto che il concordato fallimentare, può essere, oltre che una mera modalità subprocedimentale di chiusura del fallimento, una variante procedimentale del modello liquidatorio base, rappresentando una possibile alternativa allo stesso per la gestione e la sistemazione dell’insolvenza che sia stata accertata in via giudiziale, da attuare subito dopo tale accertamento.

La previsione della facoltà di recesso indennizzato – in cui l’eventuale valutazione del giudice va condotta sul piano dell’equilibrio delle prestazioni con riferimento al margine di guadagno che la parte si riprometteva di trarre dalla esecuzione del contratto – consente nella modalità di utilizzo, per così dire fisiologica, anche una corretta programmazione della fattibilità economica della sistemazione concordataria dopo il fallimento, anche a beneficio di eventuali finanziatori terzi.

Il tutto al fine di evitare quelle interruzioni improvvise dell’attività di impresa, esiziali, derivanti dalla riluttanza del mercato a contrattare con imprese in procedura concorsuale (anche in caso di concordato preventivo c.d. con continuità) o dal tempo necessario alla selezione ed alla contrattazione per un affitto successivo, visto che la gestione sostitutiva processuale realizzata attraverso l’esercizio provvisorio, rimane un’ipotesi eccezionale.

Nella situazione prodotta dal coronavirus molte imprese, già spesso sottocapitalizzate e con problemi pregressi di sottocapitalizzazione, si trovano ad affrontare una situazione che ha interrotto bruscamente i propri cicli, produttivi e finanziari, provocando una situazione cui reagire con una segregazione immediata del complesso produttivo dal titolare del patrimonio, inteso come insieme di attività e passività. Il passaggio successivo è l’autofallimento del soggetto locatore in funzione di un concordato fallimentare “premeditato” (o come “second best” di un preventivo) e la prosecuzione dell’impresa con la newcostart up affittuaria e aspirante concordataria.

 

3. L’idea di un concordato fallimentare “del giorno dopo” è d’altra parte stata chiaramente concepita dal Legislatore della riforma del 2006 che, nel delineare il contenuto del programma di liquidazione, aveva collocato non a caso ai primi posti innanzitutto: a) l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, o di singoli rami di azienda ai sensi dell’art. 104, ovvero l’opportunità di autorizzare l’affitto dell’ azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell’articolo 104 bis; b) la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto.

E’ evidente che il riferimento alla sussistenza di proposte di concordato fallimentare, da indicare nel programma all’indomani del fallimento, non può che riguardare quella variante procedimentale del modello liquidatorio base, programmato dallo stesso imprenditore insolvente, sulla base di un driver strategico di resilienza dell’impresa che sia stata affittata subito prima ad un soggetto giuridico diverso ma con il medesimo assetto proprietario, senza escludere che possano parteciparvi subito o successivamente eventuali partners terzi, industriali o finanziari.

C’è di più, la proposta di concordato fallimentare “del giorno dopo” può essere assistita da quel nuovo sistema di garanzie pubbliche introdotte dalla decretazione d’urgenza e che potrà ulteriormente essere affinata nei prossimi mesi.

La newco-start up infatti non soffre di tutti i limiti esistenti nell’ordinamento comunitario e nel sistema bancario agli aiuti di stato alle imprese in crisi che rendono impossibili erogazioni di garanzie o finanziamenti pubblici a società in concordato preventivo, anche a seguito delle deroghe prodotte dalla vicenda coronavirus.

Un esempio è nel comma 9, dell’articolo 49 del decreto “Curaitalia”, in cui si prevede che il Mef può emanare provvedimenti di natura non regolamentare con i quali individuare nuove misure a favore delle imprese come finanziamenti agevolati alle stesse e garanzie “primarie” anche a favore di banche per l’erogazione di nuova finanza.

Orbene una misura specifica può essere quella rivolta a sostenere questo modello di salvataggio delle imprese ed a proteggerle da competitor stranieri a guisa di un intervento di “golden power” dello Stato. A rischio sono infatti le aziende private e i settori produttivi nei quali si addensa quell’interesse strategico nazionale in cui si sostanzia il centro gravitazionale della moderna idea di democrazia economica, e, quindi, nel senso più alto dell’espressione, di sovranità.

Una linea specifica di interventi e garanzie potrebbe essere diretta a consentire il completamento del programma di riacquisto dell’azienda affittata, mediate il finanziamento del concordato fallimentare, a guisa di vero e proprio “investimento” e quindi fuori anche dagli ulteriori limiti agli aiuti di stato che hanno margini molti più ampi rispetto alle erogazioni di mera liquidità per la continuità finanziaria.

La newcostart up avente i medesimi assetti proprietari della fallita può essere partecipata anche da soggetti terzi, industriali o finanziari, anzi l’obiettivo vero è che l’operazione possa favorire l’ingresso di finanziatori nella start up affittuaria che propone il concordato fallimentare. Ma proprio per favorire questa resilienza “assistita”  l’unica strategia tempestiva che consente la reale continuità reattiva deve partire da chi ha organizzato l’impresa che ha il tipico vantaggio competitivo della conoscenza dell’azienda.

Ecco che il programma “resiliente”,che consenta la gestione ponte mediante affitto, può trovare il tassello finale nel concordato fallimentare a garanzia pubblica “del giorno dopo” che non incorre nel divieto di aiuti di stato alle imprese in crisi, propedeutico ad un “fresh start” o ancora meglio ad un “restart without limits”.

La necessaria rapidità della reazione programmata fanno preferire la soluzione dell’affitto e del successivo auto-fallimento del locatore al “lungo calvario” del concordato in continuità (anche indiretta)[1] ed alle sue “pastoie burocratiche” che sottopongono la gestione a stress ed a sprechi di energia che invece la “liberazione” mentale ed organizzativa del fallimento elimina consentendo di profondere tutte le risorse nell’attività produttiva. D’altra parte questo tipo di concordato non ha dato i risultati sperati e statisticamente gli insuccessi sono stati assolutamente preponderanti, come dimostra il nuovo assetto del codice della crisi e i numerosi aggiustamenti precedenti.

Chiaramente non è escluso che il programma possa essere realizzato attraverso un concordato preventivo che ha tuttavia evidenziato gravi limiti: per la riluttanza del mercato a contrattare con imprenditori in default, per la difficoltà di operare sotto il rigido controllo di più organi perdippiù preoccupati dalle loro responsabilità (in particolare per quanto riguarda il commissario giudiziale trasformato in un sindaco con doveri di controllo anche contabile) e da ultimo per i limiti posti dai correttivi ad un concordato di tipo liquidatorio anche quando alla men peggio camuffata da procedura “mista” ed alla necessità di procedure competitive.

Talora si è giustamente parlato di abuso dello strumento del concordato preventivo che in verità si è spesso configurato più come un abuso dei consulenti che di una scelta dell’imprenditore, che viene erroneamente indotto a ritenere che il concordato abbia effetti salvifici, specie dalle conseguenze penali della dichiarazione dell’insolvenza (a parte lo spossessamento attenuato che, come visto, con l’affitto si evita). In verità supposizione infondata che condiziona anche molti pubblici ministeri che restano convinti della maggiore “afflittività” sostanziale a prognosi postuma.

Infatti la  giurisprudenza di legittimità più recente, chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità al concordato preventivo delle norme penali in materia di bancarotta e sulla sollevata questione di legittimità per violazione dell’art. 3 della Cost., in relazione alla differenza dei presupposti e caratteristiche delle due procedure, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale osservando che “rientra nei poteri discrezionali del legislatore equiparare quoad poenam situazioni concretamente diverse ma aventi la medesima finalità della tutela dei creditori  a fronte dell’attività del debitore non ancora impossibilitato del tutto alla fisiologica estinzione delle proprie obbligazioni” ed ha ribadito la parificazione del decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento, assumendo la stessa funzione e svolgendo la stessa efficacia nelle fattispecie di bancarotta fraudolenta.  La Suprema Corte ha affermato che le condotte distrattive poste in essere prima dell’ammissione al concordato preventivo rientrano, anche nel caso in cui la società non sia poi stata dichiarata fallita, nell’ambito previsionale dell’art. 236, comma secondo, l.fall., il quale, in virtù dell’espresso richiamo all’art. 223 l. fall., punisce i fatti di bancarotta previsti dall’art. 216, l. fall., commessi da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società fallite.

L’art. 236 comma 2°, l. fall., quindi punisce i titolari di cariche sociali che si siano resi responsabili di  condotte di bancarotta commesse nella gestione di società ammesse al concordato preventivo, anche se poi non sfociato nel fallimento. Il giudice di legittimità ha precisato che ove si accogliesse la tesi secondo cui la punibilità della bancarotta nelle procedure concorsuali “minori” dipendesse dall’effettiva successiva instaurazione di quella fallimentare, si affermerebbe  una interpretatio abrogans del dettato dell’art 236 L.F., il quale, invece, rivela la volontà del legislatore di punire, per l’appunto, in maniera autonoma, le condotte di bancarotta commesse nelle diverse procedure concorsuali, al fine di evitare che restino imputati gravi comportamenti verificatisi prima ed anche in assenza del fallimento.  In definitiva, l’autonomia della fattispecie in esame dalle altre ipotesi di bancarotta contemplate dalla legge fallimentare, con le quali sostanzialmente condivide l’oggetto giuridico, si caratterizza per il particolare disvalore della modalità d’offesa selezionata dalla norma incriminatrice, individuato nella consumazione delle tradizionali condotte di bancarotta nell’ambito delle singole procedure concorsuali pre fallimentari.

Anzi il concordato preventivo può talora produrre effetti ancora peggiori del fallimento (il danno oltre la beffa) visto che per la suprema Corte è configurabile il delitto di bancarotta fraudolenta anche in caso di distrazione o dissipazione di beni la cui cessione sia stata espressamente prevista in un piano approvato dai creditori ed omologato dal Tribunale, nell’ipotesi di indebito uso della procedura concordataria in frode al ceto creditorio per la realizzazione di un interesse illecito del proponente, mediante una chiara ed indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, tale da falsare il giudizio dei creditori e orientarli in maniera presumibilmente diversa rispetto a quella che sarebbe conseguita ad una corretta rappresentazione.

Ma una volta delineati gli scenari complessivi passiamo ad approfondire le numerose problematiche tecniche poste dal programma.

 

4. Il contratto di affitto dell’azienda concepito in funzione del successivo auto-fallimento deve presentare caratteristiche idonee (e virtuose) in modo da reggere alla configurazione di patologie a seguito della dichiarazione di fallimento ed innanzitutto deve essere espressamente dichiarato come funzionale al detto programma nel contratto stipulato. Deve ovviamente trattarsi di un contratto validamente concluso tra le parti con forma scritta ad probationem (art. 2556 c.c.), salva l’osservanza delle particolari formalità previste nel caso di godimento ultranovennale dei beni immobili (art. 2643 c.c.) ovvero dei marchi (art. 138, d.lgs. n. 30/2005); deve essere stato depositato per l’iscrizione nel Registro delle Imprese (art. 2556, comma 2, c.c.) dopo essere stato stipulato nella forma della scrittura privata autenticata ovvero dell’atto pubblico.

E’ ovvio che tutto quanto detto presuppone che il contratto di affitto preesistente sia opponibile alla procedura fallimentare a norma dell’art. 45, l. fall., altrimenti al curatore basterà, per sciogliersi dal vincolo contrattuale, avvalersi degli ordinari rimedi previsti in tema di inopponibilità di un atto compiuto dal fallito. Difatti l’art. 45 prevede l’inopponibilità degli atti per i quali non siano state rispettate, prima della declaratoria di fallimento, le formalità previste dalla legge per renderli opponibili ai terzi.

Il legislatore, come visto, dopo aver sancito la regola della continuazione del rapporto preesistente, contempla un diritto di recesso per entrambe le parti entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, corrispondendo un indennizzo equo, determinato nel dissenso delle parti, dal giudice delegato sentiti gli interessati. La qual cosa attenua tutti i pericoli per le parti nel programma che stiamo delineando ed incentiva alla buona fede e correttezza nella stipula del contratto di affitto.

Il giudice nella formulazione del giudizio di equità deve scrutinare tutte quelle “anomalie ed asimmetrie del sinallagma” contrattuale, proprio al fine di valorizzare quella logica virtuosa del programma da noi delineato e sanzionare la logica abusiva. Senza ricorrere ad opinabili classificazioni dello schema contrattuale originario, il Giudice delegato potrà recuperare, nell’ambito dell’ampio giudizio di equità che la norma gli affida, tutte le particolarità e le eventuali anomalie del caso concreto, in modo da poter pervenire alla determinazione ovvero anche al diniego della richiesta indennità. A tal fine potranno avere rilievo anche eventuali vizi genetici del contratto di affitto di azienda, quali la sua nullità o inopponibilità al fallimento, così come la sussistenza di fondati elementi per ritenerlo revocabile ex art. 67 l.fall. ovvero ex art. 2901 c.c.

In buona sostanza ogni elemento della singola fattispecie deve essere attentamente valutato per ristabilire il “giusto” equilibrio tra i contrapposti interessi economici della massa e del contraente in bonis ed il giudice delegato, proprio in quanto conosce l’intera procedura potrà e dovrà valutare la buona fede contrattuale e la fisiologia dell’intero programma divisato.

Nonostante la procedura abbia il diritto di recesso e gli ordinari rimedi (anche cautelari ex artt. 670 e 700, c.p.c.) quali le azioni revocatorie, di simulazione, di nullità dei contratti di affitto stipulati dal fallito, nella pratica è evidente che una situazione di occupazione può indurre comunque la curatela alla ricerca di accordi transattivi, nella prospettiva di una cessione comunque preferibile per la massa rispetto ad un incerto contenzioso. In ogni caso ciò conferma che per riuscire il programma dell’affitto con successivo concordato deve fondarsi su valori congrui ed economicamente ineccepibili e su un approccio complessivamente virtuoso, ivi compresa la possibilità di clausole contrattuali che deroghino a favore della curatela la previsione normativa.

La consapevolezza di tutti gli strumenti e le prerogative delle parti devono servire a consolidare una cultura fisiologica dell’operazione ed anche a trovare aggiustamenti in corso durante il fallimento per raggiungere un equilibrio tra gli interessi in gioco.

Una riflessione merita la questione dell’eventuale riconoscimento  del  diritto di prelazione, legale  o convenzionale, all’acquisto dell’azienda al titolare di un contratto di affitto preesistente al fallimento. Quest’ultima infatti può rappresentare una variante al programma base descritto e come una sorta di “third best” all’opzione concordataria.

Prima della riforma del 2006 si doveva ritenere che qualora il diritto di prelazione fosse stato convenzionalmente riconosciuto all’affittuario dal conduttore poi fallito, il curatore aveva la possibilità di sciogliere il fallimento dal vincolo fino a quando il negozio non fosse stato concluso. Qualora, invece il prelazionario avesse già comunicato prima del fallimento, mediante notifica o comunque con atto di data certa, la sua volontà di acquistare l’azienda, si configurava un rapporto opponibile al fallimento, anche se revocabile sussistendone le condizioni, in quanto lesivo degli interessi della par condicio creditorum.

La questione sembra definitivamente superata per il fatto che il diritto di prelazione a favore dell’affittuario, essendo regolato dalla norma che prevede l’affitto endofallimentare dell’azienda, si deve specificamente rivolgere esclusivamente all’imprenditore che ha ottenuto l’autorizzazione al godimento del complesso dei beni dell’impresa da parte del giudice delegato.  La prelazione, sia legale che convenzionale, spetta soltanto ai soggetti che hanno stipulato il contratto di affitto dell’azienda con l’autorizzazione degli organi fallimentari, previa valutazione della convenienza della continuazione dell’attività e della capacità imprenditoriale dell’affittuario, e non a quelli che l’abbiano stipulato con il debitore, prima  della  dichiarazione di fallimento.

Questa conclusione emerge dal disposto del secondo comma dell’art. 104 bis, l. fall.,laddove sancisce che la scelta di quest’ultimo «deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della livelli attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali». Inoltre la nuova norma, a differenza delle ipotesi di prelazione legale, non prevede alcun automatismo ma soltanto la mera “possibilità” che tale diritto sia convenzionalmente riconosciuto e previsto dallo stesso contratto di affitto.

Tali considerazioni, tuttavia, non valgono ad escludere che gli organi fallimentari, in talune occasioni, possano ritenere che l’affitto stipulato prima della dichiarazione di insolvenza, per evitare la cessazione dell’attività e la conseguente dispersione dei valori aziendali, possa essere meritevole non solo di prosecuzione ed eventualmente, previo parere del comitato dei creditori, di riconoscimento della prelazione convenzionale. Resta infatti il macro-problema degli investimenti e della valorizzazione del complesso produttivo cui l’affittuario è disincentivato non solo dal fatto che l’azienda non è sua ma anche dal pericolo di renderla ancora più appetibile ai terzi.

Nel quadro di queste garanzie il diritto di prelazione potrebbe essere riconosciuto all’affittuario scelto dal fallito sulla base di un patto autorizzato ex post dalla procedura.

Ma evidentemente questa ipotesi pure rientrante in un assetto fisiologico e simmetrico delle relazioni tra la procedura ed il soggetto terzo diviene un programma alternativo al concordato fallimentare esperito dallo stesso affittuario che può rappresentare in ogni caso una valida variante del caso concreto.

E’ stata infatti evidenziata la difficile compatibilità dell’affitto concorsuale con la libertà per l’affittuario di effettuare investimenti adeguati e funzionali all’inserimento del complesso affittato all’interno dei propri processi produttivi, inserimento retto tuttora dal principio dell’obbligo di salvaguardia del complesso nella sua individualità, funzionale alla sua “scorporabilità” e retrocedibilità alla procedura, al momento della cessazione del contratto.

In secondo luogo, per l’assoggettamento dello stesso affitto alla regola della selezione competitiva, che si accentua fino a sovrapporsi alla vera e propria gara per la vendita quando nell’affitto sia prevista la concessione all’affittuario di un diritto di prelazione ovvero quando siano riconosciuti diritti al trasferimento dell’azienda affittata (clausole di “put” e di “call”). Pertanto si è rilevato che regole del genere tendono a rendere l’affitto dell’azienda una modalità liquidatoria difficilmente praticabile in seno alla procedura e a rendere preferibile, appunto, che l’affitto venga stipulato tra l’imprenditore ancora in bonis e l’affittuario prima di ricorrere alla procedura concorsuale, subordinandolo al consenso del curatore, consenso che porterebbe con sé l’accettazione delle clausole essenziali del contratto, ivi inclusa la previsione del diritto di prelazione, ma non anche di quelle concernenti il diritto di acquisto da parte dell’affittuario, che postulerebbe la vanificazione del principio di selezione competitiva.

 

5. L’ultimo tassello del programma delineato è la presentazione da parte della società affittuaria, all’indomani del fallimento, della proposta di concordato fallimentare funzionale all’acquisizione dell’azienda o comunque al ritorno in bonis dell’impresa fallita, con la conseguente variante della fusione.

Si badi bene non escludiamo che la newco-start up costituita dai soci della fallita venga partecipata, originariamente o successivamente, da soggetti terzi, industriali o finanziari, anzi l’obiettivo vero è che il modello individuato possa incentivare l’interesse di finanziatori (pubblici o privati) ad investire in società senza debiti ma con il completo corredo produttivo ed informativo, per la riacquisizione dell’azienda a mezzo concordato a condizioni certe e predeterminate.

Tuttavia proprio per favorire l’ingresso di finanziatori (in particolare fondi specializzati), l’erogazione di garanzie pubbliche ed il finanziamento bancario di scopo occorre perseguire l’unico modello davvero tempestivo e resiliente possibile che non può che basarsi sul soggetto che ha organizzato l’impresa, ossia quell’imprenditore che ha impresso l’atto di destinazione, che ha organizzato quel complesso di beni e di rapporti funzionante e funzionale all’esercizio dell’attività economica e che appunto gode delle c.d. asimmetrie informative.

L’operazione pone quindi un problema di legittimazione del proponente laddove abbia i medesimi “assetti proprietari” del fallito (soggetto di diritto) visto che, secondo una certa impostazione, ciò avrebbe i limiti temporali previsti nell’ultima parte del primo comma dell’art. 124, l. fall.,.

Come noto il legislatore della riforma del 2006 e del successivo correttivo, in continuità con la legge Prodi bis e la Marzano sulle grandi imprese insolventi, ha eliminato il monopolio del fallito nella legittimazione al concordato fallimentare, ammettendo anche uno o più creditori e qualunque «terzo» a presentarla, ed addirittura ponendo il fallito (e alcuni centri di imputazione a lui collegati) in una posizione di “retroguardia” rispetto agli altri possibili proponenti.

L’istituto riservato al fallito per la definizione «a stralcio» della propria posizione debitoria, è così divenuto semplicemente una tecnica di chiusura della procedura alternativa alla liquidazione, in una certa misura indifferente al soggetto proponente. Il fallito, tuttavia, non solo è stato messo in concorrenza con altri potenziali proponenti, ma è anche stato collocato in una posizione di “retroguardia”, in quanto non può presentare la propria proposta se non dopo il decorso di un termine dilatorio di un anno dalla dichiarazione di fallimento, mentre tutti gli altri hanno la possibilità di presentarla il giorno dopo la dichiarazione di fallimento.

Secondo gli interpreti il termine dilatorio iniziale mirava ad incentivare il fallito ad accedere alla procedura di concordato preventivo, esponendolo, in caso di inerzia e di  fallimento, al rischio che altri si impadronissero legittimamente del suo patrimonio. Il debitore non avrebbe infatti sufficienti incentivi a proporre un concordato preventivo se potesse più facilmente ottenere lo stesso risultato (mediante il silenzio-assenso dei creditori, previsto dall’art. 128, 2° co.), subito dopo la dichiarazione di fallimento. Né d’altra parte altri potenziali interessati a proporre un concordato potrebbero efficacemente competere con il debitore, dato il vantaggio informativo di cui egli gode circa il valore reale del patrimonio aziendale.

La legge prevede infatti che il termine dilatorio iniziale di un anno dalla dichiarazione di fallimento e quello finale di due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo si applichino non solo al fallito, sia esso persona fisica o giuridica, ma anche a società cui egli partecipi e a società sottoposte a comune controllo. La finalità sarebbe quella di evitare facili aggiramenti delle limitazioni imposte al fallito, che potrebbero essere attuati facendo presentare la proposta di concordato non a lui, ma a soggetti a lui collegati.

La disciplina che limita per i soggetti collegati al fallito il tempo della presentazione della proposta si applica alle società da lui partecipate e non solo controllate, anche destinate a divenirlo in conseguenza del concordato preventivo, sia come conseguenza diretta del medesimo, sia per effetto di un c.d. patto paraconcordatario.

La norma si applica altresì alle società sottoposte a comune controllo con il fallito, situazione che può verificarsi solo quando il fallito abbia forma societaria.

Orbene è evidente la mancata inclusione della stessa società controllante fra i soggetti collegati al fallito e quindi la lettera della norma consente senza dubbio a società che abbiano il medesimo assetto proprietario della fallita di presentare il c.d. “concordato del giorno dopo”, perché tali società, che nel nostro programma si sono rese affittuarie, non sono sottoposte letteralmente “a comune controllo con il fallito”.

In verità secondo alcuni primi commentatori ciò appariva come il frutto di una svista, che come tale andava corretta mediante l’interpretazione analogica o attraverso il correttivo previsto dalla legge delega.  Al contrario il silenzio del legislatore a questo proposito non può affatto essere imputato a distrazione, ma dipende da una precisa e consapevole scelta, che è proprio nel modello che stiamo delineando.   Orbene il decreto correttivo, come noto, è stato emanato nel 2007 e, come altrettanto noto, il legislatore pur avvertito del problema interpretativo non ha inteso affatto modificare o precisare alcunchè, per la serie ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.

Ma ancora più epifanica è circostanza che l’art. 240 CCII, che disciplina il contenuto della proposta di concordato nella nuova liquidazione giudiziale, riproduce per grandi linee l’art. 124, l.fall., e legittima a proporre il concordato ancora uno o più creditori, un terzo e il debitore.  Il Codice della crisi e dell’insolvenza in particolare replica pedissequamente la disposizione in esame nell’ultima parte del comma 1 dell’art. 240, dove si continua a leggere: “La proposta non può essere presentata dal debitore, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo se non dopo il decorso di un anno dalla sentenza che ha dichiarato l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale e purchè non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo. La proposta del debitore è ammissibile solo se prevede l’apporto di risorse che incrementino il valore dell’attivo di almeno il dieci per cento”.

Orbene se è ipotizzabile una svista del legislatore del 2006, se è possibile una seconda leggerezza del correttivo del 2007, se diventa difficile pensare ad una superficialità dei redattori delle quattro novelle successive sulla base di una lettura controversa in dottrina e giurisprudenza,  è invece certo che la pietra tombale alla interpretazione estensiva è la identica previsione di una norma passata attraverso il lungo dibattito e la defatigante sedimentazione della c.d. riforma Rordorf. Riforma che peraltro prevede, a conferma della ratio complessiva e delle ragioni sottese, la norma sull’apporto di risorse aggiuntive del debitore,  la quale appare addirittura rendere ammissibile la presentazione della proposta sempre a quelle date condizioni.

Quanto al ricorso all’analogia, pure richiamata per veder applicata la norma, va eccepito che la stessa rappresenta in fondo una limitazione all’attività d’impresa e quindi alla libera concorrenza (quantomeno rispetto ai predetti soggetti che non siano il fallito) o comunque è latamente sanzionatoria e decadenziale  quindi non può che interpretarsi quale disposizione eccezionale e di stretta interpretazione. Tant’è che la disciplina non si applica neppure ai familiari ed ai congiunti del fallito. Anzi, proprio con riferimento alla ratio delle limitazioni alla proposta del fallito, le stesse motivazioni poste a base dei vantaggi competitivi del terzo e le norme che ne sono espressione, “costituiscono, oltre che il fondamento, anche il confine al quale deve arrestarsi la prevalenza del terzo rispetto al fallito”. In questa prospettiva, se non vi è il rischio di “abuso” da parte dell’affittuario che intenda proporre immediatamente un concordato fallimentare, non sussiste ragione per impedirglielo, anche se ha la stessa compagine sociale della società fallita, perché questa limitazione si risolverebbe in un pregiudizio, piuttosto che in una tutela per la massa dei creditori.

D’altra parte le presunte ragioni alla base del limite temporale si sono rivelate del tutto infondate  e non hanno certo incentivato concordati preventivi virtuosi, tant’è che lo strumento si è rivelato fallimentare con percentuali bassissime di successo. E se vogliamo, il divieto finisce col tradursi in una sorta di obbligo, più che un incentivo, a preferire la soluzione alternativa al fallimento (piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordati preventivi) che contrasta con il c.d. aspetto negativo della libertà di impresa di rango costituzionale.

L’applicazione di questi anni ha dimostrato che il limite è piuttosto un disincentivo alla presentazione del concordato preventivo nella consapevolezza degli esiti spesso nefasti e della necessità del buon esito, visto che il fallito non ha la seconda chance di trasformare la proposta in concordato fallimentare e rischia di vedersi “soffiata” l’azienda da terzi, semmai concorrenti stranieri. Ipotesi che viceversa può rappresentare come visto una variante del modello base.

E quindi per una sorta di nemesi storica, in tempi in cui la tempestività dell’emersione della crisi è considerata l’obiettivo primario, le ragioni incentivanti producono l’effetto contrario di portare il debitore al moral hazard, ossia tentare il solito dannoso “tutto per tutto” invece di presentare un sano autofallimento.

Nella prassi si è poi osservato che laddove intervenga il fallimento e non ci sia quella continuità, che ad esempio l’affitto consente, l’impresa si disperde e non c’è più alcun interesse competitivo all’attività economica e la gran parte dei concordati proposti da terzi sono meramente liquidatori e speculativi.

Insomma la lettera della norma consente il concordato del giorno dopo alla società affittuaria e tutte le ragioni delineate avvalorano una interpretazione del modello divisato, senza che occorra una abrogazione dell’ultima parte del primo comma dell’art. 124 l. fall. (o dell’art. 240 CCII), pur auspicata da tanti.

La profonda ed inarrivabile informazione che ha il debitore della propria impresa non è un vantaggio concordatario da evitare in funzione di approcci ideologici che non hanno prodotto alcun risultato, ma l’unico modo per rendere l’impresa resiliente con una tempestiva strategia di reazione.

Tutto deve però avvenire alla luce del sole, in trasparenza ed in buona fede, come si addice all’era del coronavirus, senza usare i soliti fittizi prestanome o fiduciari e senza abusare del contratto.

L’affitto ad una newco con i medesimi assetti proprietari, propedeutico all’auto fallimento premeditato deve essere dichiarato ovunque come parte integrante del programma virtuoso da proporre agli organi del fallimento come soluzione, all’indomani dell’insolvenza, nell’interesse fondamentale dell’impresa che non è solo una proiezione dell’imprenditore, ma una realtà oggettivamente rilevante cui l’ordinamento accorda tutela ed assegna uno specifico ruolo  ed alla quale sono riferibili, in certi limiti, situazioni e rapporti autonomi rispetto a quelli che fanno capo all’imprenditore.

Si può obiettare che il ricorso massiccio a questo programma può moltiplicare esponenzialmente i fallimenti. Si è affermato che secondo lo scenario cauto, potrebbero entrare in crisi di liquidità 124 mila imprese (il 17,2% del campione), raggiungendo un picco a luglio. Successivamente, i casi di crisi causa da Coronavirus si ridurrebbero velocemente. Secondo lo scenario estremo, il numero di imprese salirebbe a 176 mila (il 33%) a fine anno. In entrambi i casi, il costo sociale di questi fallimenti sarebbe importante: i lavoratori a rischio sarebbero 2,8 milioni nello scenario cauto e 3,8 milioni in quello estremo. Nello scenario pessimistico le iniezioni per “salvare” tutte le imprese ammonterebbero a 80 miliardi: ai 30 spesi tra marzo e agosto secondo lo scenario base, se ne dovrebbero aggiungere altri 50 per far fronte al perdurare dell’emergenza. Le iniezioni necessarie salirebbero rispettivamente a 42 e 107 miliardi senza moratoria sui debiti. Le proiezioni predisposte da molti economisti prevedono che nei prossimi 6/12/18 mesi potrebbero chiudere, fallire o portare i libri in tribunale quasi i 50% delle imprese. Svizzera Spagna ed Austria hanno previsto la sospensione ed attenuazione degli atti esecutivi contro i debitori comprese le dichiarazioni di fallimento.

Orbene tutto è possibile de iure condendo anche che venga eliminata la fame nel mondo, ma tutto deve essere sostenibile. Creditori deriva dal latino credere ed i creditori devono poter credere nella sostenibilità del sistema. La sospensione può certo contenere la crisi, ma per sua natura è a termine. L’iniezione di liquidità è chiaramente necessaria e noi stessi abbiamo individuato in quale direzione deve andare cioè passare attraverso le normali dinamiche di mercato e di meritevolezza del salvataggio, senza dimenticare che le imprese italiane, cronicamente piccole e sottocapitalizzate, in molti casi hanno trovato nel coronavirus solo il culmine della citata piramide degli errori di Heinrich.

Anche perché è del tutto indimostrata la efficacia e la efficienza di una iniezione enorme di liquidità pur se fosse possibile nelle dimensioni monstre ipotizzate, senza considerare i comportamenti opportunistici o addirittura fraudolenti, fuori dal controllo di organi concorsuali.

In realtà nel nostro approccio si tratterà di fallimenti che non tolgono ma aggiungono imprese al mercato e le allocano in modo efficiente isolandole dai debiti, mediante il vaccino dell’affitto e la catarsi della procedura concorsuale, questa voltà sì in una sorta di “immunità di gregge”.

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