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Dopo 50 anni si è ancora alla ricerca delle cause della morte di Neruda

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Pablo Neruda

Ricardo Eliécer Neftalí Reyes BaParral scelse lo pseudonimo di Pablo Neruda, in onore dello scrittore e poeta ceco Jan Neruda.

Comunista, subì censure e persecuzioni politiche, dovendo anche espatriare a causa della sua opposizione al governo autoritario di Gabriel González Videla. Tra le sue tante opere spicca la raccolta Canto General, in cui l’autore ripercorre tutta la storia del continente americano, soffermandosi sulle insurrezioni, sugli abusi di potere, sui governi e sui diritti dei cittadini che auspicava anche per il suo popolo.

Dal 1936 al 1939 fu travolto dalle vicende della guerra civile in Spagna schierandosi dalla parte dell’eroico popolo spagnolo. Un grande poeta ma non esattamente un grande uomo come egli stesso confessò in un suo famoso memoir: da giovane stuprò una donna e abbandonò  la sua unica figlia, malata di idrocefalia, che morì a nove anni lontana dal padre e dalla madre.

Di recente Pablo Neruda – poeta cileno, premio Nobel per la letteratura nel 1971, “il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua” come lo definì Gabriel García Márquez – è tornato alla ribalta della cronaca  a causa di una clamorosa svolta nelle indagini tutt’ora in corso sulla sua morte prematura.

Risale al 13 febbraio 2023, infatti, la conferma definitiva che il poeta fu avvelenato dodici giorni dopo il colpo di Stato che portò al potere il generale A. Pinochet destituendo il presidente Salvador Allende. A distanza di cinquant’anni si è riaperto uno dei casi giudiziari più misteriosi della Storia.

La riapertura del caso è stata determinata dalla rivelazione di Manuel Araya, autista del giudice, che ha raccontato di aver ricevuto una telefonata dello stesso Neruda, poche ore prima della sua morte, in cui il poeta diceva di essere stato avvelenato durante il suo ricovero in ospedale.

La testimonianza venne raccolta dai vertici del partito che presentarono una denuncia alla magistratura. Araya fu una delle ultime persone a vederlo vivo, insieme alla moglie di Neruda, Matilde Urrutia, che “ha sempre sostenuto che la malattia fosse sotto”.

A raccontarlo Mario Amoros storico e giornalista dell’agenzia Efe, autore della biografia Neruda. El principe de los poetas, in cui afferma che Neruda aveva intenzione di trasferirsi in Messico e da lì “diventare il grande nemico di Pinochet”. Ad affermarlo, in un’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais, è il nipote del premio Nobel Rodolfo Reyes, secondo il quale “Neruda era un uomo molto pericoloso, tanto dentro che fuori il Cile. Dopo la morte di Allende e Victor Jara, non c’era nessun’altra persona in grado di unire così tanto”.

Reyes afferma, inoltre, che al poeta venne iniettata una sostanza tossica “come arma biologica”: i sospetti della famiglia, del resto, erano cominciati proprio all’indomani del decesso, quando il medico che curava Neruda passò le consegne ad un fisiatra – noto come Doctor Price – misteriosamente scomparso dopo la morte di Neruda.

La tossina adoperata per avvelenarlo era il batterio Clostridium botulinum, responsabile del botulismo. Tale scoperta mise subito in dubbio la versione ufficiale, offerta dal governo, che parlava di un decesso derivato da “un inesorabile cancro alla prostata”.

Nel 2013 il caso fu affidato al giudice Mario Carrozzo che, nel 2013, sulla scia di tali sospetti fece riesumare il cadavere del poeta per stabilire definitivamente le cause della morte di Neruda.

Fu solo nel 2017 che un team di scienziati internazionali si è detto convinto al 100 per cento che il poeta non fosse morto di cancro alla prostata nella clinica San María di Santiago. Pochi mesi fa il giudice per le cause sui Diritti umani, Paola Piazza, ha dichiarato che molto probabilmente il batterio era stato cresciuto in laboratorio e quindi il nuovo team di esperti “dovrà chiarire le implicazioni relative alla scoperta del Costridium botulinum nei resti del poeta”.

I prossimi mesi saranno decisivi in quanto i risultati dell’analisi saranno resi pubblici ponendo la parola fine ad un’indagine che  ha incontrato tantissimi ostacoli.

Un rapporto che arriva dopo ben 50 anni per dare giustizia a chi, forse, avrebbe potuto cambiare la storia del proprio Paese.

Roberta Fameli
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