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Il Green Deal per la sostenibilità ambientale e le strategie future dei governi.
Il concetto di “sostenibilità ambientale” è legato a quello di tutela dell’ambiente: negli ultimi anni sulla dimensione ecologica ha prevalso la dimensione economica e sociale e, infatti, il Green Deal punta ad una economia circolare che sappia affrontare la grande crisi climatica determinata dalle emissioni di gas serra che minaccia il mondo. Per questa ragione noi tutti nei prossimi anni dovremmo adottare uno stile di vita più semplice, in quanto il vero obiettivo del Green Deal europeo consiste nell’abbattimento delle emissioni di gas serra per raggiungere l’obiettivo “emissioni zero” entro il 2050. Tuttavia il raggiungimento della neutralità climatica per alcuni paesi sarà più difficile da raggiungere che per altri, visto che alcuni dipendono fortemente dai combustibili fossili.
L’Italia, in particolare, ha riconosciuto il dovere di preservare la natura con l’articolo 9 della Costituzione, che è stato modificato aggiungendo agli impegni più importanti per l’avvenire “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni” e anche con l’articolo 41: “le iniziative economiche non dovranno creare danni all’ambiente, alla dignità umana e alla salute”. Nonostante il tentativo di attuare una politica anti-inquinamento, l’Europa è di recente scivolata nell’abisso di una nuova guerra, le cui ripercussioni saranno considerevoli anche dal punto di vista ambientale.
“La cultura è un bene comune perché appartiene a tutte e a tutti. È sostenibile perché resiste e si rinnova nel tempo grazie a un patto generazionale”.
La storia del Novecento ha dimostrato ai posteri i numerosi danni che le guerre possono provocare all’ambiente. Per esempio ancora oggi troviamo tracce di petrolio nell’Oceano Atlantico provocate dai naufragi delle navi durante la seconda guerra mondiale, oppure l’alluvione del fiume Giallo del 1938 che è stata definita il “più grande atto di guerra ambientale nella storia”; fu provocata dal governo nazionalista cinese per contrastare il nemico durante la seconda guerra contro il Giappone.
Il recente conflitto in Ucraina, per esempio, avrà costi ambientali altissimi perché secondo l’analista militare russo Pavel Felgenhauer, “potrebbe disperdere detriti radioattivi nel suolo”, visto che sul territorio ucraino sono presenti ben quindici reattori nucleari che, si teme, possano essere distrutti intenzionalmente dall’esercito russo, anche se Putin per il momento non ha ordinato un attacco nucleare, ma gli analisti non escludono nessuna ipotesi.
Al momento, secondo le fonti di Le Monde, il rialzo delle radiazioni nella zona di Chernobyl è dovuto al passaggio dei mezzi militari pesanti. La distruzione dei reattori nucleari, infatti, potrebbe essere considerata di vantaggio per annullare il sistema energetico ucraino. Un’ulteriore eventualità da tener presente è che la guerra comprometta la sicurezza degli impianti nucleari, che in Ucraina sono di terza generazione, cioè dotate di sistemi di sicurezza più avanzati, come ha messo in luce l’attacco alla centrale di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa che rifornisce di energia quasi la metà dell’Ucraina. Stando all’analisi di Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) l’incendio, sviluppatosi in seguito all’attacco russo, è stato domato e non è stato rilasciato materiale radioattivo. Già nel 2014 l’Ucraina ha rischiato una catastrofe ambientale in Donbass, la regione carbonifera nota come una delle più inquinate del paese a causa dei rifiuti tossici derivati dalle estrazioni.
Non molti sanno, infatti, che quando una miniera viene chiusa non può essere semplicemente abbandonata, ma è necessario praticare molto spesso dei fori attraverso i quali viene pompato acqua, per evitare che i bacini idrici siano contaminati dai metalli pesanti. È logico però che la guerra renda molto più difficile adempiere all’espletamento di certe operazioni, come ha evidenziato l’Istituto nazionale di studi strategici ucraino, che ha parlato di “minaccia imminente” per la popolazione.
La guerra rappresenta anche la sconfitta degli ambientalisti, perché “salvare il pianeta” non può più essere una priorità rispetto alla possibilità di non ricevere più gli approvvigionamenti di gas naturale provenienti dalla Russia. In questo momento, infatti il settore dell’energia, che tanto interessa i Paesi occidentali, non può considerarsi al riparo da eventuali sanzioni o fiammate di prezzi, perché l’attacco a Kiev potrebbe determinare la mancanza di rifornimento di gas e petrolio da Mosca. Poiché l’Italia dipende per il 40% da tali forniture, il Ministero della Transizione Ecologica ha dichiarato che già da diversi giorni è attivo “lo stato di preallarme nazionale” e il premier Mario Draghi si è detto pronto a riattivare le vecchie centrali a carbone presenti sul territorio nazionale, come pure a raddoppiare le capacità del gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline), grazie al quale importiamo il gas naturale estratto in Azerbaijan (attraversa il nord della Grecia, l’Albania e il Mare Adriatico per giungere in Puglia dove si collega alla rete di distribuzione del gas).
Nel 2021, il Tap è entrato a far parte del White Dragon, progetto incentrato sullo sviluppo e trasporto su larga scala di idrogeno verde collegando la Grecia ai mercati europei. Negli ultimi giorni il premier italiano e la presidente della Commissione europea Von der Leyen hanno approvato un pacchetto sulla sicurezza energetica adattato agli effetti prodotti dal recente conflitto in Ucraina. L’obiettivo è quello di ridurre la dipendenza dell’Europa dal gas russo, con modalità e tempi che cambieranno da Paese a Paese basandosi su tre pilastri fondamentali: la diversificazione dell’offerta, investimenti nelle energie rinnovabili e accelerazione del Green Deal.
Inevitabilmente gli accordi stilati questa estate, durante la COP26 di Glasgow, sono per favorire la transizione verso forme di energia pulite, come previsto dal Fit for 55, ovvero il piano europeo per ridurre le emissioni di gas effetto serra. I presidenti dei paesi più potenti del mondo si sono i parlati nel corso di due settimane, con l’intenzione di limitare i danni provocati dal surriscaldamento globale e ponendosi l’obiettivo di mantenere sotto controllo la temperatura del Pianeta.
Il primo risultato è stata la convergenza sulla decarbonizzazione degli apparati industriali per giungere alla “net zero”, cioè alle zero emissioni di anidride carbonica entro il 2050. Fondamentale risulta in tal senso l’introduzione del sistema “cbam” – Carbon Border Adjustment Mechanism– che segue l’ETS (Emission Trading System) il cui obiettivo è quello di tassare chi inquina di più e premiare i paesi virtuosi.
Oggi il maggiore utilizzatore di carbon fossile è la Cina ed è difficile credere che il gigante cinese accetti di buon grado la sostituzione del carbone con l’energia rinnovabile, perché il costo di questa operazione è particolarmente elevato. Com’è a tutti ben noto, infatti, il costo dell’energia incide pesantemente sulla produzione di beni e servizi, come pure sul consumo delle famiglie, per cui molti Stati nel mondo intendono proseguire ad utilizzare carbone e petrolio. L’Europa si propone di utilizzare le risorse energetiche a disposizione in maniera più efficiente, favorendo lo sviluppo della economia green, limitando così le emissioni di gas serra, con il ripristino della biodiversità e trasformando i problemi in opportunità di guadagno.
Intorno alla green economy e alla transizione ecologica gravano enormi interessi economici, ben evidenziati nel “Focus della Relazione sullo stato della green economy 2021”; si analizza il danno subito dall’economia a causa della pandemia e si indicano le strategie utili per favorire una ripresa incentrata sulla sostenibilità ambientale. In futuro i governi dovranno affrontare queste e molte altre problematiche, indubbiamente complesse, ponendo grande attenzione all’utilizzo delle risorse disponibili e facendosi anche ideatori di possibili politiche ambiziose e originali.
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