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La flessibilità nelle politiche attive del lavoro e la sua incidenza sulla precarietà del lavoratore

Professore a contratto Università Mercatorum e Università degli Studi di Salerno, Avvocato specialista in diritto penale e Avvocato lavorista.

Il termine flessibilità è generalmente associato ai temi della disoccupazione, delle politiche attive del lavoro, delle crisi aziendali che costituiscono la premessa ad un licenziamento collettivo, delle delocalizzazioni e di tutto ciò che attiene, nel bene e nel male, al settore lavoristico e dell’imprenditoria. I flussi informativi che hanno accompagnato le normative sul lavoro che si sono succedute negli anni hanno, all’unisono, insistito sull’importanza della flessibilità, persino della sua indispensabilità in ambito occupazionale, evidenziando l’accezione positiva del termine senza mai chiarire e approfondire le sue variegate sfaccettature, lasciando le implicazioni di politica del lavoro ad essa connesse sospese in un limbo di indeterminatezza ed approssimazione.

Con tali premesse la flessibilità in ambito lavoristico può, ictu oculi, apparire un plusvalore poiché, nella sua naturale contrapposizione alla rigidità, consente l’adattamento a seconda delle differenti situazioni, apparendo un valido sostegno all’occupazione e alla stabilità, favorevole sia al sistema economico che ai lavoratori. Tuttavia la realtà dei fatti non è così semplice come può sembrare. In primis il concetto di flessibilità, pur se circoscritto all’ambito occupazionale, lavorativo e imprenditoriale, resta pur sempre generico, poliedrico e caleidoscopico, essendo utilizzato in situazioni e con significati differenti e permutabili. Per capirne il significato e la portata è necessario, pertanto, distinguere le varie tipologie di flessibilità.

Da un punto di vista prevalentemente datoriale la locuzione “flessibilità lavorativa” è riferita alla capacità di un’azienda di poter variare le policy sul lavoro, adattandole al mercato occupazionale, ai contesti imprenditoriali locali ed alle necessità produttive contingenti relative a determinati periodi storici. Le riforme di politica economica e occupazionale degli ultimi anni hanno avuto un tendenziale orientamento verso una flessibilizzazione del mercato del lavoro, con l’espresso duplice fine di rinvigorire alcuni settori strategici attraendo nuovi investitori e, contemporaneamente, scoraggiare le delocalizzazioni. Intento, invero, teoricamente per nulla criticabile, ma a patto di non ledere i diritti del lavoratore. Sotto questo punto di vista l’orientamento verso una maggiore flessibilizzazione del rapporto lavorativo non ha ottenuto i risultati sperati con riguardo agli investimenti, ma ha altresì irrimediabilmente eroso l’apparato di tutele del lavoratore, risultato di decenni di aspre battaglie sindacali avvenute principalmente fra gli anni sessanta e ottanta.

Andando più nello specifico il concetto di flessibilizzazione va, inevitabilmente, ad incidere sul recesso dal rapporto lavorativo, ed in particolare sui licenziamenti individuali e collettivi, ovvero sulla riduzione del numero di ore lavorate. Per comprendere la connessione fra licenziamento e flessibilizzazione è necessaria una distinzione fra due tipologie di flessibilità aziendale, nonostante una inevitabile interconnessione fra le stesse: la flessibilità esterna e quella interna. La flessibilità esterna, definita tecnicamente da alcuni autori flessibilità numerica, è da ricondurre alla capacità dell’imprenditore di aumentare, ovvero ridurre, il numero di dipendenti nella propria azienda. Essa ha origine proprio nella maggiore facilità per la parte datoriale di risolvere rapporti di lavoro o creare nuovi posti con assunzioni. Tale flessibilità è più elevata al diminuire dei costi di assunzione e in presenza di una legislazione del lavoro meno protezionistica nei confronti del prestatore. In definitiva l’equazione cui risponde la flessibilità esterna si definisce in una maggiore facilità nei licenziamenti corrispondente ad una maggiore predisposizione alle nuove assunzioni. Ciò in quanto viene offerta la possibilità al datore di lavoro di adattare il numero di dipendenti alle necessità produttive di un determinato momento storico.

Quanto detto implica un’ulteriore distinzione. La flessibilità esterna va, difatti, distinta in flessibilità in entrata e in uscita: la prima riguarda la capacità dell’imprenditore di modulare le assunzioni a seconda delle proprie necessità di forza lavoro, la seconda attiene alla maggiore facilità dell’imprenditore di recedere dal contratto con i propri dipendenti. Le due tipologie sono strettamente connesse, poiché una maggiore flessibilità in entrata presuppone l’aumento della flessibilità in uscita. Il che si traduce in licenziamenti più facili e minor protezione del lavoratore, nonché minore stabilità del posto di lavoro. La flessibilità esterna si fonda, pertanto, su una normativa sui licenziamenti meno rigida ( c.d. flessibilità in uscita), e sull’ampio utilizzo dei contratti a tempo determinato (c.d. flessibilità di esternalizzazione).

Secondo gli autorevoli studi effettuati all’inizio del nuovo millennio da Blanchard e Tirole, senza la flessibilità esterna le imprese assumono ed investono in maniera minore, con conseguenze negative sul mercato del lavoro, quali il decremento del tasso di occupazione e l’aumento della durata media del periodo di disoccupazione degli individui. Tuttavia gli orientamenti di politica del lavoro degli ultimi anni smentiscono questa teoria. Le propensioni alla flessibilità del d.lgs. n. 276 del 2003 ossia la c.d. Riforma Biagi, della riforma Fornero del 2012 e del Jobs Act del 2015, non hanno, difatti, assicurato incrementi occupazionali. In particolare la riforma Fornero e il Jobs Act riducendo ad ipotesi residuali la tutela reale, facendo rientrare nei casi di eccezionalità le reintegrazioni nel posto di lavoro del prestatore illegittimamente licenziato, hanno sortito il solo effetto di una precarizzazione occupazionale.

Sono le politiche del lavoro a promuovere, a seconda dell’avvicendamento dei governi nei differenti periodi storici, orientamenti verso una più marcata flessibilità oppure una maggiore stabilità del posto di lavoro. La tendenza dell’ultimo ventennio sempre più orientata alla flessibilizzazione del mercato del lavoro ha rischiato di far ricadere nella precarietà ogni rapporto lavorativo, anche a tempo indeterminato. Non vi è formula che possa stabilire se l’incremento della flessibilità sia una scelta valida o penalizzante nell’ottica di un mercato del lavoro dinamico e di crescita dell’occupazione, tuttavia già Massimo D’Antona alla fine degli anni novanta, condivisibilmente, aveva rilevato l’obsolescenza della flessibilità quale strumento di promozione dell’occupazione. Si può, invece, evidenziare che la maggiore flessibilità sia direttamente proporzionale ad una maggiore precarietà del prestatore, con conseguente minor propensione al consumo e minor stabilità economico-sociale. Da ciò si può agevolmente dedurre che, nel medio periodo, anche l’occupazione non può trarre giovamento dalle politiche di flessibilità occupazionale. Se perimetrata all’ambito sopra descritto la flessibilità non può, pertanto, essere valutata in un’accezione positiva, poiché non efficace per l’incremento dell’occupazione, nonché strumento di amplificazione della soggezione del lavoratore nei confronti della parte datoriale.

Discorso differente per la flessibilità interna o organizzativa, la quale oltre a consentire alle aziende di variare i cicli produttivi durante l’anno, ha il pregio, secondo le statistiche OCSE, di migliorare i livelli occupazionali rispettando le esigenze dei prestatori, senza rendere il lavoro eccessivamente precario, come avviene invece per la flessibilità esterna. Essa si concretizza nella possibilità per il datore di variare il numero e la distribuzione delle ore di lavoro senza modificare la quantità di forza lavoro impiegata, con prestazioni connesse alla turnazione e particolari forme di flessibilità dell’orario, attraverso l’individuazione di tipologie di rapporto di lavoro più adeguate all’organizzazione aziendale, mutevole a seconda delle esigenze di mercato. Nell’ambito di tale tipologia di flessibilità possono essere incluse quelle forme di lavoro atipico quali il contratto a tempo parziale, che prevedono un orario ridotto e soprattutto meno rigido del tempo pieno, anche per effetto delle c.d. clausole elastiche.

Il part-time risponde, inevitabilmente, ad esigenze di flessibilità nell’interesse delle imprese, ma si pone anche quale strumento di conciliazione fra vita professionale e familiare del prestatore, corrispondente ad un moderno concetto europeo di work-life balance. Da tale punto di osservazione la flessibilità interna può essere considerata un utile strumento di crescita economica e occupazionale. Essa può, tuttavia, rappresentare, nelle ipotesi di part-time involontario, un punto di accesso per atti discriminatori nei confronti di soggetti lavorativamente più deboli, quali donne e lavoratori fragili, come condizione imposta dalla scarsità di alternative. Lo stesso Parlamento europeo ha aspramente criticato l’utilizzo discriminatorio della flessibilità interna, rilevando che “la maggior parte delle nuove opportunità di lavoro per le donne sia costituita da impieghi a tempo parziale e talvolta da impieghi precari”.

Alberto Biancardo
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