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La libertà d’espressione e la cancel culture

Docente specializzata in analisi del comportamento per il recupero degli studenti con disabilità intellettiva.
Tutor specializzato per il supporto di ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento.

CANCEL CULTURE

L’espressione “cancel culture” indica un fenomeno culturale intorno al quale ruota un vivace dibattito nel mondo anglosassone e da qualche tempo è entrata a far parte anche delle discussioni italiane nei talk – show televisivi e sui giornali.

La locuzione cancel culture è stata coniata negli Stati Uniti diversi anni fa: uno dei primi riferimenti, a quello che diventerà un fenomeno di tendenza, è nel film del 1991“New Jack City”, in cui il protagonista rivolgendosi alla sua fidanzata dice “Cancel that bitch” ispirandosi al testo della canzone degli Chic del 1981, “Your Love Is Cancelled”. Introduce il concetto di “cancellare una persona per un comportamento inaccettabile”; ma è solo dal 2014 che l’espressione “You’re cancelled” (“Ti cancello”) diventa un modo di dire comune che sta a significare: “Hai esagerato”.

Dal 2017 l’espressione ha cambiato progressivamente di significato indicando il “boicottaggio”, verso le attività svolte da una persona o da un gruppo, per danneggiarlo economicamente a causa di un comportamento giudicato moralmente scorretto.

Uno degli episodi più famosi di “cancel culture” è quello capitato negli Stati Uniti al regista Woody Allen, accusato dall’ex moglie di aver violentato la figlia adottiva. Nonostante l’assenza di prove, negli ultimi anni nuove campagne contro l’attore hanno determinato sia la mancata distribuzione dei suoi film che la non pubblicazione, da parte della casa editrice Hachette, della sua autobiografia “A proposito di niente”.

Dalla morte di George Floyd a Minneapolis, in seguito alle violenze di due agenti della polizia locale, gli episodi di “cancel culture” hanno assunto la forma dell’iconoclastìa distruggendo statue e monumenti considerati simboli dello schiavismo e della cultura razzista.

Nel corso del 2020 Noam Chomsky, insieme ad un gruppo di intellettuali – tra cui J.K. Rowling, Salman Rushdie, Margaret Atwood e Francis Fukuyama, etc. – ha riconosciuto l’esistenza della “cultura della cancellazione” pubblicando una lettera aperta – “A Letter On Justice And Open Debate”- sulla rivista Harper’s Magazine, nella quale si evidenziano i rischi corsi dalla libertà di parola quando si impongono  “schieramenti politici che tendono a indebolire il dibattito aperto in favore del conformismo ideologico”.

La libertà di espressione, infatti, non è una dottrina di destra o di sinistra ma “un principio bipartisan” radicato in valori condivisi da tutti.

La pubblicazione di Chomsky suscitò una polemica internazionale concentrata sul concetto di libertà di pensiero: la cancel culture, infatti, è nota per la tendenza a rimuovere persone o aziende considerate colpevoli di aver violato i diritti delle minoranze, la parità di genere, l’uguaglianza.  Il testo della lettera contiene una denuncia verso l’intolleranza, della cosiddetta “sinistra liberale” ostile alle critiche e a idee diverse dalle proprie. I firmatari della lettera sottolineano come le istituzioni culturali stiano vivendo un momento difficile a causa di un clima di intolleranza che favorisce il public shaming nei confronti di chi esprime opinioni diverse da quelle della “cultura dominante”, il conformismo ideologico, l’ostracismo, la censura, il bullismo digitale.

Molte critiche giunsero anche dagli intellettuali di sinistra che risposero sul Wall Street Journal con la lettera intitolata “A More Specific Letter on Justice and Open Debate” nella quale erano citati alcuni grandi classici letterari osteggiati dal movimento DisruptTexts, fra cui l’“Odissea” di Omero e “La lettera Scarlatta” di Nathaniel Hawthorne.

L’articolo venne duramente criticato dagli stessi sostenitori di DisruptTexts, che si dichiararono contrari ad ogni tipo di censura.

In realtà la “cancel culture” viene criticata sia dai conservatori sia dai liberali, ma entrambi la rivendicano come uno come strumento di attivismo di matrice statunitense e di lotta politica giovanile.

I conservatori, in particolare, ritengono che la “cancel culture” causi gravi limitazioni alla libertà di parola: non mancano però tra di loro quelli che adoperano l’espressione per sminuire e liquidare come “capricci” dei progressisti molte proteste sui diritti civili. Tra i liberali invece le obiezioni pongono l’accento sull’impoverimento del dibattito intellettuale che rischia di essere troppo intransigente nel rispetto di ciò che si può o non si può dire, oppure lasciarsi travolgere senza badare al contesto.

In Italia il fenomeno è giunto prevalentemente sotto forma di “cultura della cancellazione” o “cultura del boicottaggio” racchiudendo in sé iconoclastia, censura preventiva degli editori e polemiche politiche/sociali.

A volte, infatti, la cancel culture prende di mira opere d’ingegno del passato ritenute offensive verso le nuove istanze sociali, decontestualizzandole dall’epoca in cui sono state realizzate, oppure verso personaggi famosi, verso i quali è messo in atto un processo di revisionismo.

Non di rado nel nostro Paese la “cancel culture” si è sovrapposta al concetto di “politicamente corretto”: accade spesso infatti che i media scansino gli argomenti più spinosi, pur di evitare sanzioni per aver espresso opinioni controverse.

Tutto ciò non favorisce un dialogo aperto e produttivo per sentirsi liberi di esprimere le proprie opinioni senza ferire la sensibilità altrui, attraverso un dibattito costruttivo, inclusivo e rispettoso che consenta a tutti di esprimere le proprie opinioni senza avere paura di essere frainteso. In tal senso sembra aver trovato un punto di equilibrio Loretta Ross, attivista afroamericana; ha definito la “cancel culture” – vista da molti come una forma spontanea di hacktivismo digitale (hacking + activism) – come un fenomeno attraverso il quale alcune persone cercano di trarre “profitto dalla discriminazione e dall’ingiustizia”.

Di recente, il premier inglese Boris Johnson ha annunciato una serie di provvedimenti per assicurare la libertà d’espressione nei campus britannici, mentre il suo ministro dell’educazione ha annunciato di voler nominare un garante della libertà di espressione e di insegnamento, per “indagare sulle potenziali infrazioni, come l’esclusione dei conferenzieri o il licenziamento di professori universitari”.

Ricordando le parole di George Orwell, nel suo romanzo “1984”, quando dice che “L’Ortodossia è inconsapevolezza”, è necessario formare una nuova consapevolezza per il diritto alla memoria e la libertà d’espressione.

La guerra in Ucraina, per esempio, non solo ha causato una profonda crisi umanitaria, economica, valoriale, ma ha anche portato alla luce una serie di ipocrisie insite nella società occidentale. Fra queste spicca per l’appunto la “damnatio memoriae”, o “cancel culture” che dir si voglia, che colpisce gli esponenti della cultura russa.

Un triste esempio si è avuto all’Università Bicocca di Milano che in seguito all’invasione dell’Ucraina ha deciso di cancellare i corsi sui grandi scrittori russi. Non mancano tuttavia gli esempi di natura opposta, come quello dell’artista napoletano Jorit, che ha omaggiato Dostoevskij realizzando un enorme murales a Napoli.

Roberta Fameli
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