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Responsabilità penale del Revisore e recenti orientamenti giurisprudenziali

Professore a contratto Università Mercatorum e Università degli Studi di Salerno, Avvocato specialista in diritto penale e Avvocato lavorista.

La centralità del ruolo di garanzia del revisore dei conti ha favorito un ricorso sempre più frequente all’utilizzo della sanzione penale quale deterrente per la commissione di delitti dolosi collegati a tale incarico. La giurisprudenza è recentemente orientata verso un ampliamento dell’attribuzione di responsabilità penali nei confronti della figura del revisore, in particolar modo con riguardo al concorso in reati commessi da amministratori o sindaci, amplificando ulteriormente le responsabilità nelle ipotesi in cui egli rivesta la duplice posizione di sindaco e revisore. Normativa di riferimento è, non solo la specifica disciplina del d.lgs. n. 39 del 2010 con le successive modifiche e le disposizioni sul falso in bilancio previste dal codice civile, ma anche la normativa penale in materia di imposte e di falso, la normativa antiriciclaggio, nonché le norme sulla bancarotta societaria.

Secondo un generale orientamento la Cassazione rileva la penale responsabilità del revisore per non aver adeguatamente vigilato sui bilanci societari, con la conseguente pronuncia di pareri positivi nelle proprie relazioni nonostante evidenti errori contabili e violazioni dei principi finanziari. La sentenza della Cassazione n. 33843 del 2018 rappresenta un chiaro esempio di una precisa posizione della giurisprudenza tesa a condannare il revisore che dissimula la reale consistenza della crisi finanziaria della società evidenziando, invece, la regolarità delle procedure per la contabilizzazione delle entrate e delle spese. Anche nelle ipotesi in cui il reato sia commesso principalmente dal legale rappresentante della società, i revisori non sono esenti da responsabilità penale “potendo anch’essi essere chiamati a rispondere del medesimo reato in concorso con l’amministratore a titolo di mancato controllo”, secondo quanto ribadito nella sentenza n. 4820 del 2024.

Tuttavia negli ultimi anni la stessa giurisprudenza di legittimità ha posto alcuni limiti al continuo ampliamento delle responsabilità penali del revisore. Si è, difatti, preso atto che la carenza di significativi poteri di intervento volti all’impedimento degli illeciti, colloca la figura del revisore nel solo ambito del delitto doloso, escludendolo essenzialmente da questioni penalmente rilevanti di carattere colposo. In assenza di predetti poteri si rischia di ascrivere al revisore ipotesi di responsabilità penale per fatto altrui, in palese violazione dell’art. 27 della Carta costituzionale.

Accanto a tutte quelle condotte dolose poste in essere dal revisore nell’esercizio della sua attività professionale, sussistono un insieme di condotte colpose ex art. 40 comma 2 del codice penale, poste in essere dallo stesso nella duplice veste di revisore e componente del collegio sindacale, dovute generalmente all’omissione di poteri di controllo e vigilanza, che devono necessariamente essere sanzionate in maniera meno afflittiva. In alcune ipotesi di illeciti penali ascritti al solo revisore legale viene addirittura a mancare l’elemento soggettivo del reato, ossia la volontà e consapevolezza di compiere un’azione penalmente rilevante, ovvero gli elementi costitutivi della colpa, di talché l’imputazione posta a suo carico difetta di un requisito fondamentale della struttura dello stesso reato, ai fini dell’attribuzione della penale responsabilità al soggetto attivo.

Proprio con la motivazione della mancanza dell’elemento psicologico del reato, negli ultimi anni la Suprema Corte ha cassato numerose sentenze di condanna della giurisprudenza di merito, emesse nei confronti del revisore dei conti. Di particolare rilevanza la netta distinzione posta dalla Corte di legittimità fra il falso del revisore, il falso in bilancio e la bancarotta. La Cassazione, sez. V penale, con sentenza n. 47900 del 30.11.2023 ha, difatti, precisato che la fattispecie del falso nelle relazioni dei revisori non ha attinenza né con il falso in bilancio previsto dall’art. 2621 c.c. né con la bancarotta prevista ex art. 223 comma secondo, n. 1 della Legge Fallimentare e, per tale ragione, non può ex se rappresentare una modalità di concorso nei predetti reati.

La Corte ha osservato che tale distinzione non esclude che il revisore possa fornire il proprio apporto all’autore del reato di falso in bilancio procurando allo stesso una relazione positiva e, conseguentemente, di bancarotta societaria, tuttavia si tratta di un concorso che passa attraverso le ordinarie forme di cui all’art. 110 c.p. e non attraverso una combinazione di altre norme incriminatrici. Pienamente condivisibili sono le argomentazioni della Corte, la quale esclude categoricamente l’automatica connessione fra i predetti delitti, poiché ognuna delle singole fattispecie contestate deve necessariamente essere integrata nelle sue componenti soggettive. Difatti, oltre alla volontà del dissesto, deve sussistere anche l’aspetto psicologico richiesto dal reato societario, concretizzantesi nel dolo generico del falso, dolo intenzionale del raggiro, dolo specifico del conseguimento di un ingiusto profitto.

La sentenza della Cassazione n. 1162 del 10 gennaio 2024 fissa, invece, dei precisi limiti per ciò che riguarda la cooperazione colposa nell’omissione dell’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo del sindaco o revisore, e della conseguente astensione dalla richiesta di fallimento. Difatti, con riguardo al profilo soggettivo, la Corte ha ribadito come la colpa grave debba sempre essere accertata nell’ipotesi del ritardato fallimento, stabilendo che “l’eterogeneità delle situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella dimensione della colpa”. Il ritardo nella dichiarazione di fallimento è, pertanto “troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave”.

Per ciò che riguarda il professionista che riveste il duplice ruolo di sindaco e revisore, sempre più frequentemente colpito da provvedimenti giudiziari di condanna particolarmente severi, un interessante mutamento di orientamento è certamente rappresentato dalla sentenza della Cassazione sez. III penale, n. 27158 del 15.07.2021, la quale ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la decisione di annullamento di sequestro preventivo da parte del Tribunale del Riesame. Quest’ultimo, non ravvisando il fumus della condotta contestata ha annullato il sequestro nei confronti dell’indagato, accusato di aver concorso col legale rappresentante della società, nella veste di sindaco unico e revisore, all’indebita compensazione di crediti inesistenti per importi superiori a 50.000 euro, violando così l’art. 10 quater del d.lgs. n. 74 del 2000 e successive modifiche. Secondo l’accusa l’indagato, sottoscrivendo due dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà con cui attestava sotto la propria responsabilità, l’effettività delle spese sostenute dalla società, si macchiava indiscutibilmente del predetto reato, poiché avrebbe contabilizzato fatture di acquisto relative a prestazioni a carattere tecnico/informatico, da ritenersi afferenti ad operazioni inesistenti emesse da società tra loro collegate.

La difesa contestava l’addebito, con ricorso al Tribunale del Riesame, affermando che la posizione del sindaco unico e revisore di una società debba essere di mero controllo formale sulla regolarità delle scritture, e non anche del controllo effettivo della corrispondenza alle prestazioni fornite. Il Tribunale del Riesame e successivamente la Corte di Cassazione con la predetta sentenza accoglievano la tesi difensiva, fissando un importante limite alla responsabilità del sindaco-revisore, il cui dovere di vigilanza viene, così, inequivocabilmente circoscritto alla sua dimensione meramente formale.

Nel caso in esame, nonostante la declaratoria di inammissibilità del ricorso avverso la decisione di annullamento di sequestro preventivo del Tribunale del Riesame, non viene tuttavia chiarito dal Supremo consesso un punto che la difesa aveva stimato di primaria rilevanza. Le prestazioni ritenute dall’accusa afferenti ad operazioni inesistenti venivano emesse da società esterne e non da quella amministrata e della quale l’indagato era sindaco e revisore, e per tali prestazioni venivano emesse regolari fatture. La responsabilità dello stesso non può, però, estendersi all’operato di società che, seppur collegate, non fanno capo alla società amministrata. Condivisibile è, pertanto, la testi difensiva secondo cui la responsabilità omissiva impropria del sindaco-revisore sia invocabile solo con riferimento agli atti di gestione della società amministrata e non possa estendersi ad atti compiuti da amministratori di società terze, stante il difetto di poteri impeditivi, e l’esclusione del potere di controllo nei confronti di queste.

A parere dello scrivente non può essere attribuita al revisore dei conti una sorta di responsabilità oggettiva di carattere penalistico, poiché ciò andrebbe a contrastare con i princìpi stessi del diritto penale, quali la personalità della responsabilità penale, la tassatività, il principio di determinatezza. Ma è, soprattutto, sempre necessaria la presenza dell’elemento psicologico del reato, o quanto meno, a titolo di colpa, la prova della negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. L’incriminazione del revisore, che consegua automaticamente alle accuse al legale rappresentante di una società, a titolo di concorso ex art. 110 c.p. per reati societari, rappresenta un’anomalia del nostro sistema giuridico, che la giurisprudenza di legittimità sta giustamente cercando di correggere. Le sentenze esaminate rappresentano indiscutibilmente un valido punto di partenza per un orientamento di maggior equilibrio nei confronti della figura del revisore con riguardo alla responsabilità da illecito penale, tuttavia è necessario che l’interprete fissi criteri meno evanescenti, conferendo così all’azione penale maggiore certezza e rispondenza ai canoni della tassatività.

Alberto Biancardo
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