skip to Main Content

La tutela del valore costituzionale dell’Ambiente

Profilo redazionale della testata giornalistica.

Ambiente Esg

(Approfondimento a cura del prof. Francesco Fimmanò)

1. La nuova versione dell’articolo 41 Costituzione in vigore da quest’anno recita che l’iniziativa economi­ca privata non può svolgersi in modo da recare danno, oltre che alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (limiti già enumerati in Costituzione) ora anche alla salute e all’ambiente.

L’espressa previsione della tutela dell’ambiente è anche nell’art. 9 della Costituzione, in cui il nuovo comma 3 assegna alla Repubblica, tra l’altro, il com­pito di tutelare «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosi­stemi, anche nell’interesse delle future generazioni». Tale finalità di tutela nella carta costituzionale permette al bene giuridico “ambiente” di passare dall’incerto status giuridico di «valore» a quello più granitico, non solo sul piano dogmatico, di «principio fondamentale» con tutte le conseguenze del caso. Un impatto molto si­gnificativo ha l’esplicito riferimento all’interesse delle generazioni future. La portata intergenerazionale che va assicurata alla tutela di questo valore, in verità già con­siderata dalla Consulta proprio ai fini dell’applicazione del dovere di solidarietà, rende ancora più complessa l’opera di bilanciamento.

Gli attori pubblici dovranno effettuare istruttorie, ponderazioni e misurazioni dirette a considerare gli effetti di lungo periodo delle scelte assunte con riferi­mento alle risorse naturali e ambientali. E questo non riguarda solo il legislatore. Una comunità locale non è parte diretta delle transazioni realizzate dall’impresa che opera sul suo territorio, ma ne subisce le esternali­tà ambientali e sociali; e se attraverso le sue istituzioni rappresentative può decidere di rilasciare o negare una “autorizzazione”, è indirettamente in grado di influire sulla creazione di valore da parte dell’impresa e nego­ziare l’attenuazione delle esternalità negative.

Lo sviluppo è sostenibile quando soddisfa i biso­gni della generazione presente senza compromettere la possibilità, per le generazioni future, di soddisfare a loro volta i bisogni della vita. Quindi, il godimento di buona parte dei diritti fondamentali delle generazioni presenti e future dipende principalmente dalla realiz­zazione di politiche (e dalla emanazione di norme) che tengano in adeguata considerazione la necessità di preservare le risorse. Premettendo i primi due limiti rispetto ai tre già vigenti, il dettato costituzionale ha inteso fornire sostanza al nuovo testo dell’art. 9, ele­vando a rango costituzionale principi già previsti dalle norme ordinarie e affiancando altresì la salute all’am­biente per la stretta correlazione tra i due aspetti.

Così come tante altre specie animali sono scompar­se e continuano a scomparire in quella che è definita la sesta estinzione di massa, anche il genere umano è destinato un giorno ad estinguersi. Quando si parla di estinzione si deve pensare a eventi che portano alla distruzione di forme di vita in decine di migliaia di anni, che in termini geologici sono tempi brevissimi. Quindi se un essere vivente si trova al centro di un’e­stinzione potrebbe non accorgersene. L’OCSE preve­de infatti che l’inquinamento diventerà la principale causa di morte prematura da qui al 2050. Già negli anni ’70 si affermava che la morte dell’uomo giungerà dall’ambiente ovvero dall’impossibilità di utilizzarlo per quei fini produttivi che la sua salvaguardia esclude. Eravamo tutti un pò scettici in passato rispetto a que­sti catastrofismi, specie noi studiosi del diritto dell’eco­nomia, ma ora le vicende ambientali e sanitarie sono così incalzanti e quotidiane che il negazionismo è per­sino risibile.

È arrivato il momento di agire seriamente e rapida­mente senza lobbies che tengano. Attraverso scelte pub­bliche ponderate vanno neutralizzate le esternalità ne­gative con prescrizioni stringenti, in grado peraltro di eliminare al contempo le vergognose e diffuse opera­zioni di facciata, tristemente note come greenwashing. Basta con la pantomima della responsabilità sociale dell’impresa che rispetto a questi temi non deve avere alcuna dimensione etica, nè vocazioni ideali rispetto all’ambiente o al benessere delle future generazioni. L’imprenditore deve fare il suo mestiere, ma essere ob­bligato ad eliminare le esternalità negative. E gli oneri da imporre da parte dei legislatori, sul piano redistri­butivo, in condizioni di diseguaglianza devono essere tali da garantire una uguaglianza sostanziale, soggetta poi a verifica del giudice.

 

2. Su tali macro-questioni sono intervenute le deci­sioni della Corte Costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo che, in passato, con sensibilità e approcci diversi, si sono interrogate su quale mediazio­ne dovesse presidiare la risoluzione di problematiche così laceranti.

La “ridefinizione” degli artt. 9 e 41 Cost. non altera sostanzialmente i rapporti tra libertà d’impresa e limiti esterni atti a conformarla, né funzionalizza autoritati­vamente l’autonomia privata. I limiti allo svolgimento dell’attività economica solo in via indiretta incidono sul diritto di libertà, non operando direttamente sulla scelta delle finalità economiche, ma sulle conseguen­ti modalità di esercizio dell’attività. Diversamente, infatti, l’utilità sociale non sarebbe più un limite, ma rappresenterebbe essa stessa “il fondamento della liber­tà d’iniziativa economica che di conseguenza si trasfor­merebbe nell’attribuzione al privato di un mero potere discrezionale di perseguire i fini sociali posti dallo Stato”.

Tuttavia, si tenga conto che ci si muove su un ter­reno in cui si agitano sempre di più diritti e valori co­stituzionali, talora neppure enumerati.

La Consulta ha evidenziato che la salvaguardia del­la salute e la protezione ambientale, pur fortemente connesse e funzionali al benessere e allo sviluppo in­dividuale e collettivo, non consentirebbero la defini­zione di una rigida gerarchia costituzionale, dovendosi procedere, come visto, ad un progressivo riequilibrio sulla base delle fattispecie concrete.

Nello specifico, secondo i giudici costituzionali, occorre una prudente mediazione tra il diritto alla salute, da cui origina il diritto all’ambiente salubre, e il diritto al lavoro: l’integrazione tra diritti costituzio­nalmente tutelati impone una lettura coordinata tra norme, impedendo, al contempo, esercizi di smisurata espansione di singoli diritti, potenzialmente idonei a tratteggiarne una vera e propria “tirannia”. Tutti i di­ritti fondamentali contenuti nella Costituzione sono reciprocamente connessi e vanno ponderati sistematica­mente e non in maniera isolata. Non si può ammettere che un diritto diventi tiranno rispetto ad altri, perché la dignità della persona trova espressione nella plura­lità di diritti fondamentali riconosciuti dalla Grund­norm. La c.d. sostenibilità può essere letta proprio come il prodotto di un cambio di paradigma politico-econo­mico e giuridico anche sul piano costituzionale.

 

3. Il senso vero di tutto ciò – in questo momento storico in cui assistiamo ad un abuso modaiolo ed osses­sivo degli acronimi CSR (Corporate social responsabili­ty) ed ESG (Enviromental Social e Governance) specie in letteratura- è, semplicemente, che attraverso scelte pubbliche ponderate vanno limitate le esternalità negati­ve delle attività imprenditoriali, non di certo attraverso illusorie spinte a dimostrare chi sia il più green di tutti – in un approccio meramente volontaristico (funziona­lizzato nella migliore delle ipotesi al marketing repu­tazionale repu­tazionale) – ma attraverso regole stringenti, di livello nazionale e sovranazionale, che devono valere per tutte le imprese dotate di relativi apparati sanzionatori.

D’altra parte anche nella parabola del “buon sama­ritano” un dottore della Legge chiese a Gesù «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» e Gesù gli rispose: «Ciò che è scritto nella Legge». La responsabilità sociale del “buon imprenditore” consiste nel rispettare le leggi ed in particolare quelle dirette all’uguaglianza distributiva, specie quando entrano in gioco interes­si e diritti cui corrispondono plurimi – e talora non enumerati – valori costituzionali da bilanciare. E visto che negli ordinamenti giuridici la prima opzione re­distributiva è quella “fiscale”, l’imprenditore che non paga le tasse non è certo un “irresponsabile sociale” ma molto più semplicemente uno che viola la legge e che per l’effetto subisce (o almeno si spera) sanzioni fiscali, amministrative ed eventualmente penali, come accade per quello che “inquina” o “maltratta i lavoratori” o “discrimina le donne”.

Avrei invero molti dubbi che l’amministratore di una società possa determinare una consapevole con­trazione degli utili per essere un integralista evergreen o un convinto assertore della cogestione dei lavoratori, come d’altra parte è dubbio che la società possa com­piere atti di liberalità laddove non ci sia in qualche modo un ritorno economico o possa perseguire inte­ressi pubblici o della collettività, al di là della questio­ne dell’evoluzione dello scopo lucrativo e dell’impresa non societaria.

Anzi c’è di più, l’approccio multi-stakeholder al go­verno dell’impresa lascerebbe l’amministratore senza un parametro preciso su cui valutare le sue performan­ce, con la possibilità concreta che ne approfitti per se­guire i suoi fini personali, celando dietro gli interessi dello stakeholder di turno il suo comportamento “op­portunistico” o comunque per essere arbitro assoluto nella selezione degli interessi da perseguire a mezzo dell’attività di impresa, senza considerare l’ipotesi peg­giore del perseguimento di strategie greenwashing. Ed anche la fragilità cognitiva della reputazione dell’im­presa responsabile, che è un prezioso asset intangibile che dipende dall’assenza di comportamenti abusivi nei confronti degli stakeholder (in modo da generarne la fiducia e la cooperazione con l’impresa, con l’effetto di transazioni a bassi costi di controllo o di contrattazio­ne), disvela la vacuità dell’autoregolazione debole, in quanto misurabile in concreto solo sulla base di regole certe e note a tutti.

Tornando alla leva tributaria, in questa prospettiva, ci si dovrebbe chiedere perché la responsabilità sociale d’impresa, se esiste, non potrebbe allora spingere l’am­ministratore a pagare, senza temere la reazione degli azionisti, una aliquota fiscale volontaria del sessanta o settanta per cento dell’imponibile, visto che il gettito ha una funzione redistributiva ante litteram. Piuttosto quello che si vede nella realtà sono incentivi fiscali alle imprese per canalizzare donazioni verso politiche so­ciali governative (con l’evidente intento di far posto a riduzioni della pressione fiscale), che peraltro rischia­no di distorcere uno dei meccanismi strutturali che ali­mentano lo sviluppo del terzo settore e che correggono le inefficienze dell’offerta globale di servizi di welfare.

Utilità sociale, sicurezza, libertà, dignità della per­sona umana (ed oggi ambiente e salute) costituiscono limiti esterni alla libertà dell’impresa privata (e non certo diretti a funzionalizzarla) e solo la legge ha il compito di coordinare l’attività d’impresa a fini sociali.

Quindi la questione vera, oggi e per il futuro, non è l’impresa responsabile, o compliant ai fattori ESG (perché è “cool ” essere così, specie sui mercati, come è capitato per l’operazione di facciata delle società be­nefit), ma la ratio delle scelte pubbliche che tracciano il quadro normativo e regolamentare dell’approccio economico sostenibile che è una questione attuale molto seria, visto che è messo a repentaglio il futuro dell’umanità. Talmente seria da farci escludere che esi­sta, rispetto ad alcuni valori, una responsabilità sociale dell’impresa e da esigere viceversa apparati normativi cogenti visto che si tratta di valori divenuti centrali in questo momento storico. Ed in realtà visto che il futuro, volente o nolente, sarà caratterizzato da regole sempre più stringenti dirette a “conformare” l’impresa del terzo millennio, la prospettiva rilevante, e quella del rapporto\conflitto\concorrenza tra i diversi valori co­stituzionali riconducibili al benessere collettivo.

 

4. Il bilanciamento di interessi e valori ESG deve essere effettuato sulla base dei parametri della ragione­volezza, della proporzionalità e della non arbitrarietà e l’apposizione di limiti va conformata all’utilità sociale. L’analisi del bilanciamento non può prescindere dall’a­deguata considerazione del principio costituzionale di solidarietà, di cui la stessa sostenibilità viene considera­ta una declinazione applicativa.

Orbene, se l’impresa arricchisce chi la esercita sen­za ledere terzi, realizza evidentemente anche l’utilità sociale, il problema si pone per le esternalità negative, ossia per gli effetti pregiudizievoli che essa determina a carico delle economie (o comunque del benessere) di terzi che sul piano distributivo (e non su quello dell’ef­ficienza) comporta che l’impresa debba indennizzare coloro cui sono imposti sacrifici. E gli oneri da im­porre da parte del legislatore in condizioni di disegua­glianza devono essere tali da garantire una uguaglianza sostanziale, soggetta poi a verifica del giudice.

Vi sono leggi che hanno finalità virtuose ma che non proteggono tutti allo stesso modo, perché ci sono casi in cui non basta l’uguaglianza formale tra i desti­natari. Non sempre è possibile proteggere o sacrifica­re diritti (ad esempio ambiente e lavoro) limitandosi all’uguaglianza formale di tutti. In questa prospettiva ad esempio la sostenibilità ambientale passa necessa­riamente attraverso l’eguaglianza sociale e viceversa e questo non è certo un compito o una responsabilità delle imprese. Le scelte in questi casi non comportano un conflitto astratto tra valori, ma un conflitto concreto tra persone con interessi diversi. Un conflitto di valori che nasce dalla necessità di bilanciare rivendicazioni basate su diritti opposti è radicalmente diverso da un conflitto individuale.

Situazioni in cui si pone il problema delle scelte tra­giche e di “lotta tra i vari tipi di valori e di uguaglian­ze”; dove troppo spesso si afferma che la situazione è talmente delicata che non occorre pensare agli oneri derivanti da determinate decisioni. La serenissima Re­pubblica di Venezia in caso di esondazioni del Po (e le alluvioni sono quanto mai attuali) aveva un “Consi­glio” che decideva dove si dovevano rompere le dighe in caso di emergenza. Le scelte avvenivano in relazione alla comparazione dei danni meno gravi prevedibili per i vari appezzamenti coltivati, con l’effetto comun­que che tale decisione incideva su chi doveva subire gli oneri dell’emergenza. Ma il Consiglio – di conse­guenza – decideva anche l’imposizione di una tassa a carico di tutti gli altri che per l’effetto della scelta non avevano subito gli effetti dannosi delle inondazioni sulla propria terra.

Ma in un mondo globalizzato è compito degli Stati (e neppure più del singolo Stato) fare interventi redi­stributivi, fissando limiti ed oneri, poiché la proble­matica ha effetti evidentemente internazionali anche rispetto agli stessi valori ESG tra loro (Environmental versus Social). Basti pensare ad uno dei tanti casi epi­fanici come ad esempio quello recente degli Honga­na Manyawa ed al progetto estrattivo per favorire la riduzione delle emissioni. Si tratta di una antichissi­ma tribù indonesiana la cui sopravvivenza è minac­ciata dalla cosiddetta industria ‘verde’. La loro foresta giace su terre ricche di nichel, un metallo sempre più ricercato come componente delle batterie per auto elettriche. L’Indonesia è il più grande produttore al mondo e nell’isola di Halmahera vi sono alcune delle più imponenti riserve di nichel non sfruttate del piane­ta. Grandi compagnie estrattive si stanno insediando nell’area distruggendo enormi porzioni di foresta che da un lato pone un macro-tema ambientale come per l’Amazzonia ma dall’altro persino un tema sociale di sopravvivenza di un intero popolo.

Il principio di eguaglianza formale purtroppo non è un algoritmo che – automaticamente – fissa un equi­librio ottimale di allocazione delle risorse, ma anche esso nasconde dietro un paravento, come nella trage­dia greca, scelte di allocazione di diritti e risorse scarse. La scelta allocativa in ogni caso, per migliore che possa apparire a chi la compie, anche se si sente mosso da intenti nobili, deve tener conto di chi ne subisce gli oneri. Talvolta non tutti i valori più importanti possono essere protetti simultaneamente, ed in questo caso le scel­te tragiche sono inevitabili. Le operazioni distributive di carattere collettivo, sia quando volontarie (poste in essere dall’impresa), sia quando coattive (e cioè realiz­zate dallo Stato), presentano grandi limiti e difficoltà. La tragicità di un caso deriva quindi, non solo dalla difficoltà di delineare un equilibrio tra interessi e va­lori concorrenti ma dalla significatività della contrad­dizione che viene ad incidere su valori, diritti e beni ritenuti fondamentali nell’ordinamento giuridico di riferimento.

Tuttavia, in ipotesi di collisione tra la vita, la di­gnità umana e i diritti fondamentali immediatamen­te espressione di essa, e interessi di natura economi­ca e puramente efficientistica, si tende ad escludere qualsiasi bilanciamento, perché trattasi di entità non comparabili ed ontologicamente incommensurabili. L’iniziativa economica non ha una funzione unificante della comunità politica (anche nella teoria delle scel­te pubbliche) e l’art. 41 comma 2 Cost., costruisce un ordine chiaro di preferenza, in caso di conflitto, dei diritti della persona rispetto ai diritti “economici”, ma non tra i diversi valori ESG tra loro.

 

5. Invero, l’acronimo ESG contiene evidenti con­traddizioni ed una chiave di lettura diversa da quel­la solitamente declinata. Ambiente e comunità (En­vironmental e Social) configurano valori ed interessi che possono entrare in conflitto od almeno in con­correnza con gli obiettivi di Governance, diretti invece a migliorare il benessere degli azionisti e il valore del loro investimento. Ma persino interessi ambientali e sociali possono trovarsi contrapposti tra loro ed essere oggetto di scelte tragiche. In ogni caso, le legislazioni sociali, del lavoro e ambientali, per buone che siano, possono definire un quadro di riferimento, ma non possono disciplinare ogni dettaglio delle decisioni di impresa. Esse possono stabilire regole generali obbli­gatorie, ma in molteplici casi per la loro applicazio­ne occorrerà interpretare un’area “grigia”, oppure non saranno osservabili le condizioni alla luce delle quali si può verificare il loro rispetto e tararne le evoluzio­ni. Ecco che occorre calarsi nelle vicende concrete per comprenderle.

Si pensi allora ad alcuni cases histories che ci han­no riguardato da vicino come quello dell’Enichem di Monte Sant’Angeloe poi quello dell’Ilva di Taranto, che hanno posto il tema della salvaguardia di diritti individuali e collettivi protetti a livello costituziona­le e sovranazionale, visti appunto in contrapposizione al diritto al lavoro ed allo sviluppo dell’economia di un territorio. Vicende che rappresentano una sorta di stress test di quanto accadrà in futuro, quando le norme diventeranno molto più stringenti. Sull’onda di vicen­de come queste la Corte di Strasburgo è pervenuta, poi, al riconoscimento della sussistenza di un diritto all’ambiente, sebbene la Convenzione europea non contemplasse questo diritto, come tale.

Nel caso Ilva la Corte costituzionale si trovò nel 2013 di fronte ad una scelta tragica per bilanciare valo­ri valo­ri tutti fondamentali nell’ordinamento costituzionale, cercando un “compromesso”, o meglio una regola di gestione del conflitto assiologico e dichiarò la censura infondata sulla base di una serie di argomentazioni es­senzialmente di coerenza formale del sistema in virtù di “un provvedimento dinamico” in quanto contenen­te un programma di riduzione delle emissioni, periodi­camente rivedibile, al fine di implementare tecniche aggiornate ottenute attraverso la ricerca scientifica e tecnologica; inoltre si presentava attuativo dei princípi europei di protezione ambientale (prevenzione, precau­zione, correzione alla fonte, informazione e partecipa­zione) funzionali a un equilibrio in merito all’accet­tabilità e alla gestione dei rischi derivanti dall’attività autorizzata”. La sentenza n. 85 del 2013 escludeva insomma l’esistenza nell’ordinamento giuridico italia­no di diritti assoluti (come i fondamentali diritti alla salute e alla salubrità dell’ambiente) nel pluralismo dei valori costituzionali altrettanto fondamentali (nel caso di specie il diritto al lavoro su cui si basa la stessa forma democratica dello Stato italiano).

Nella successiva sentenza “Ilva” (n. 58 del 23 mar­zo 2018) che muoveva da un evento diverso e cioè la morte di un lavoratore, la posizione della Consulta di­veniva più rigida ed incline a censurare, sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità, le soluzioni adottate dal legislatore. La tutela dell’iniziativa econo­mica veniva misurata “rispetto” alla tutela dell’ambien­te ricorrendo a “procedimenti di valutazione ambien­tale” al fine di bilanciare i diversi interessi coinvolti da propri giudicati. Veniva utilizzato un criterio di ragio­nevolezza c.d. “estrinseca” per verificare se, alla luce di tale valore, le disposizioni che limitano altri diritti di libertà siano o meno ragionevoli. Ciò comporta che chi voglia contestare la prevalenza del valore ambiente dovrà dimostrare che questo, nel suo costituire limite delle altre libertà fondamentali, determini una irragio­nevole compressione degli altri valori. Il che significa che la tutela ambientale potrebbe anche annullare in maniera definitiva le altre libertà, purché ciò risponda ad un’esigenza ragionevole.

È necessario, quindi, che si accerti l’esistenza di una utilità sociale reale, che non si traduca in mere scelte di politica economica relative a un dato momento stori­co, indicando viceversa anche un “metodo procedura­le” al quale l’amministrazione debba attenersi per ope­rare un corretto bilanciamento di interessi attraverso un’istruttoria complessa, che deve partire da un’analisi approfondita dei dati tecnici scientifici per giungere ad una prefigurazione degli effetti connessi.

La Corte di Strasburgo, a sua volta, è intervenuta più volte sul caso, a seguito del ricorso di decine di cittadini italiani, ed ha dichiarato in alcuni casi la re­sponsabilità dell’Italia per non aver adottato le misure amministrative e legali necessarie alla bonifica dell’a­rea interessata e a fornire ai singoli un efficace rimedio interno, in violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Il corretto equi­librio tra interesse dei cittadini e interesse della società nel suo insieme precariamente costruito dal legislato­re italiano e dalla Corte costituzionale italiana è stato sanzionato perché ritenuto dai giudici comunitari del tutto inadeguato, incapace di realizzare l’obiettivo di una concreta protezione dei diritti alla salute e all’am­biente salubre. I ricorrenti per la Corte hanno subi­to una lesione del diritto a un ricorso effettivo, così come cristallizzato all’art. 13 della Convenzione, non potendo agire per ottenere misure “volte ad assicurare il disinquinamento del territorio in questione”. Il co­dice dell’ambiente riconosce al solo Ministero dell’am­biente la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale (ex art. 311, comma 1), accordando per il medesimo pregiudizio ai privati cittadini solo una facoltà sollecitatoria nei confronti dell’ente pre­detto (art. 309, comma 1). D’altra parte, già nell’art. 174, comma 3, del Trattato dell’Unione, si esprime il tentativo di giungere ad un equilibrio tra politica economica ed ambientale, quando si specifica che la politica debba tener conto: dei dati scientifici e tecnici disponibili; delle condizioni dell’ambiente; dei van­taggi e degli oneri che possano derivare dall’azione o dall’assenza di azione; dello sviluppo socioeconomico della comunità nel suo insieme e dello sviluppo equi­librato delle sue singole realtà sociali ed economiche sulle quali la propria azione andrà ad incidere.

Mentre scriviamo è in corso il caso forse più epi­fanico della storia in quanto coinvolge una serie di imprese petrolifere, italiane e straniere, una società pubblica di depurazione, numerose istituzioni, deci­ne di migliaia di lavoratori e centinaia di migliaia di cittadini, peraltro sullo sfondo del conflitto ucraino e dei conseguenti effetti della vicenda sull’emergenza energia e sulle sanzioni alla Russia. Stiamo parlando del caso del polo petrolchimico in provincia di Siracusa (tra Priolo Gargallo, Melilli e Augusta) e del relativo impianto di depurazione della IAS (Industria acqua siracusana), società mista tra pubblico e privato che ha per azionista di maggioranza la Regione Siciliana. Lo stabilimento servirebbe a trattare i reflui dell’in­dustria petrolchimica, ma è sotto sequestro dal giu­gno 2022, in quanto, secondo la procura di Siracusa, sarebbe al centro di un disastro ambientale noto a tutti. A cascata sono state messe in discussione an­che le autorizzazioni ambientali alle importanti im­prese industriali dallo stesso Ministero dell’Ambiente che le ha rilasciate vista la necessità di un impianto di depurazione al servizio. Orbene, per l’aggravarsi delle problematiche che afferiscono all’impianto di depurazione, un Dpcm del 5 gennaio 2023 ha det­tato all’articolo 6, nuove “disposizioni in materia di sequestro”, intervenendo sul codice di procedura pe­nale e sancendo che: “quando il sequestro ha ad oggetto stabilimenti industriali o parti di essi dichiarati di in­teresse strategico nazionale ovvero impianti o infrastrut­ture infrastrut­ture necessari ad assicurarne la continuità produttiva, il giudice dispone la prosecuzione dell’attività”. L’Isab è stato dichiarato stabilimento di interesse strategico nazionale, il depuratore una sua “infrastruttura ne­cessaria” e quindi sottoposto alle medesime tutele. Il 17 marzo 2023 un decreto interministeriale ha infine definito le misure per bilanciare la “continuità dell’at­tività produttiva, la salvaguardia dell’occupazione, e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente” anche in collaborazione con la Regio­ne Siciliana.

In tutti questi casi occorre individuare policies che si basino sulla ragionevolezza, attraverso un’istruttoria che sia volta ad un accertamento oggettivo: dalle premes­se tecnico scientifiche agli obiettivi indicati, dal bilan­ciamento effettuato all’indicazione dei conseguenti effetti. Se si ammette che le politiche e i valori am­bientali sono naturalmente capaci di incidere su tutti i contesti della vita sociale ed economica e, se il valore ambientale è il valore superiore con il quale parametra­re tutte le altre libertà individuali, è necessario che le scelte adottate siano basate su un procedimento “espli­cito e riconoscibile”. Ciò al fine di poter accertare che, imposti determinati sacrifici agli altri interessi e valori (sacrifici legittimati da quella concreta tutela ambien­tale), esista una ragionevole chance di raggiungere i ri­sultati essenziali.

Molto rilevante sarà verificare la lettura dell’art. 41 alla luce dell’art. 9 e del citato interesse delle nuove ge­nerazioni che potrebbe aprire nuove prospettive per le valutazioni e i bilanciamenti. Infatti, proprio la tutela ambientale in futuro potrebbe diventare un elemento da considerare nei casi in cui il controllo del Giudice richieda un giudizio di ragionevolezza sulle scelte legi­slative. L’altra modifica all’articolo 41, della possibile destinazione e coordinamento dell’attività economica pubblica e privata (oltre che a fini sociali) anche ai fini ambientali acquisisce una speciale capacità di orienta­mento, che, in qualche modo, delinea una nuova con­cezione nella quale all’ambiente stesso è riconosciuta una “centralità paradigmatica” per un nuovo modello di sviluppo economico sostenibile in cui coniugare economia, ambiente, lavoro, salute e sviluppo sociale.

 

6. L’approccio corretto è dunque quello che par­te dalla necessità di recepire “normativamente” doveri certi degli amministratori rispetto a prescrizioni certe, non per attribuire una dimensione etica all’impresa, incentivando improprie vocazioni ideali (o non lucra­tive) e attribuendole la responsabilità dei problemi dei lavoratori, della salute, della collettività, dell’ambien­te o del benessere delle future generazioni. Viceversa deve trattarsi di un approccio che obblighi l’impresa, meno altruisticamente, a farsi carico delle esternalità negative provocate agli stakeholders attraverso una ge­stione aziendale che debba limitarle «senza perdere di vista la finalità lucrativa…».

Peraltro il tema della concorrenza di valori e delle relative scelte pubbliche di tutela e bilanciamento, non è più di livello nazionale, ma globale e quindi peculiare rilievo assume innanzitutto la normativa unionale nel­la prospettiva delineata. In questa direzione dovreb­be andare la nuova Corporate Sustainability Reporting Directive (c.d. CSRD) entrata in vigore il 5 gennaio 2023, che attualizza ed estende le regole per la ren­dicontazione di sostenibilità delle imprese, allineandosi con le altre norme di diritto unionale e con i quadri di riferimento riconosciuti a livello internazionale.

In realtà è ancora troppo poco anche se almeno co­mincia ad emergere una impronta “positivista”, visto che l’Unione Europea finora con le sue macro-racco­mandazioni, i suoi rapporti ed i vari libri verdi, gialli ed arcobaleno in cui ha suggerito inutilmente per anni a tutti di essere “più buoni come a Natale”, aveva non poco contribuito a creare il mito dell’imprenditore re­sponsabile (novello Narciso che si riflette in modo le­tale nella sua bellezza) e dei suoi cantori che sono tanti e variegati. Il tutto sulla base del pernicioso ed invalso mantra degli ultimi anni secondo cui “l’Europa ce lo chiede”. La normativa comunque allarga l’ambito delle imprese obbligate a comunicare informazioni sulla so­stenibilità, precedentemente disciplinate dalla Non-Fi­nancial Reporting Directive (NFRD), in attuazione del vacuo Green Deal europeo e del piano d’azione sulla finanza sostenibile, funzionale al miglioramento dei dati comunicati riguardo ai rischi di sostenibilità e all’impatto sulle persone e sull’ambiente, concepito peraltro solo per una parte delle imprese.

L’altro prospettico intervento è la proposta di c.d. Corporate Sustainability Due Diligence Directi­ve (c.d. CSDD), volta ad introdurre per le imprese nuovi obblighi di due diligence in materia ambientale e di tutela dei diritti umani adottata nel febbraio del 2022 dalla Commissione Europea. Tuttavia la propo­sta in modo persino paradossale (e da stigmatizzare) pre­vede doveri di diligenza senza prevedere gli autonomi obblighi cogenti cui sarebbero riferiti o almeno riferi­bili. In buona sostanza è un caso singolare di obbligo senza il precetto: come se un buon padre di famiglia chiedesse al figlio di comportarsi bene senza dirgli pri­ma cosa è il bene o tornando al consiglio “di Gesù al buon sammaritano” non esistessero poi le prescrizioni della legge del Vangelo.

Eppure l’Unione è stata preceduta, in materia, da alcuni legislatori nazionali a cominciare da quel­lo francese con “Legge PACTE” (Plan d’Action pour la Croissance et la Transformation des Entreprises) n. 019- 486 del 22 maggio 2019, che ha tra l’altro novellato in modo decisivo alcune norme del codice civile in materia societaria ed è stata già oggetto di applicazio­ne giudiziaria. Il 27 febbraio 2023 il Tribunale Parigi ha rigettato le domande risarcitorie di sei Ong contro l’azienda petrolifera Total Energies sul grande proget­to Eacop/Tilenga in quanto avrebbe violato i diritti umani delle popolazioni locali in Uganda. Una vicen­da che ha coinvolto anche BNP Paribas quale finanzia­tore di Total.

Un impatto rilevante ci sembra invece possa avere la nuova disposizione prevista dall’art. 840 sexiesdecies del nostro codice di procedura civile che prevede una azione inibitoria collettiva con una ampia platea di sog­getti legittimati e che può diventare uno strumento efficiente per la tutela di posizioni giuridiche soggetti­ve primarie in chiave preventiva ed in una dimensione collettiva, con una forte efficacia deterrente e quindi indirettamente regolatoria, funzionale a superare un meccanismo di protezione cautelare rimesso all’inizia­tiva occasionale. La tutela inibitoria nella configura­zione collettiva, può diventare strumento di controllo sociale con finalità metaindividuale per ottenere dal giudice, anche sulla scorta di dati statistici, l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione delle condot­te che impattano sull’ambiente e causano pregiudizi diffusi. Alla condanna alla cessazione delle condotte omissive o commissive possono far seguito provvedi­menti di coercizione indiretta (ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c.), nonché ordini rivolti alla parte soccombente di adottare misure idonee a eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate. La determinazione di stan­dard e parametri fissati in autorizzazioni o provvedi­menti abilitativi e conformativi dell’attività d’impresa, come si è visto nel leading case Ilva, possono essere ini­donei a evitare gravi pericoli anche perché le condizio­ni nel tempo possono mutare e va anticipata la soglia di applicabilità della tutela inibitoria al fine di evitare il verificarsi, il protrarsi o il ripetersi di atti lesivi. Non rileva il danno concretamente arrecato, il cui risarci­mento è riservato all’azione di classe, ma la condotta lesiva di situazioni giuridiche protette dall’ordinamen­to, che deve essere giudizialmente inibita per il futuro. L’astrattezza della peculiare azione inibitoria, non di­retta ad accertare l’effettiva e concreta produzione di un danno, ma ad impedire, in una prospettiva futura, l’attività che costituisce violazione di interessi giuridi­camente tutelati. Il rimedio può incidere su condotte autorizzate, prescrivendo obblighi di astensione o di facere in grado di contrastare le esternalità negative istantanee o perduranti, o quelle di pericolo, a tutela dell’ambiente.

Back To Top
Search
La riproduzione è riservata!