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La nuova generazione iraniana dopo la rivoluzione del 1979
Si celebra in questi giorni il quarantaquattresimo anniversario della Rivoluzione islamica: migliaia di iraniani si sono riversati nel centro di Teheran per festeggiare l’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema dell’Iran, e, il defunto Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica.
Secondo la televisione di stato, l’anniversario è stato festeggiato con gioia in più di millequattrocento città in tutto il Paese, tra cui Isfahan, Mashhad, Shiraz e Tabriz. I festeggiamenti giungono a quasi cinque mesi dall’inizio del movimento di protesta seguito alla morte di Mahsa Amini, la giovane di origine curda deceduta dopo essere stata arrestata per aver indossato in modo scorretto il velo.
Nel frattempo si susseguono una serie di scarcerazioni eccellenti da parte degli ayatollah che hanno mantenuto la promessa e lanciato una grande amnistia proprio in occasione dell’anniversario della rivoluzione del ’79 che li aveva messi al potere.
La storia dei movimenti di protesta contro la legittimità della Repubblica Islamica ha raggiunto il suo apice con la morte della giovane curda Mahsa Amini, arrestata dalla cosiddetta polizia morale (Ghast-e-Ershad) iraniana il 16 settembre 2022.
Da quel momento il paese è stato scosso da una violenta ondata di proteste contro l’obbligo del velo che pone uomini e donne, gli uni accanto alle altre, in una lunga serie di manifestazioni al grido “Donna Vita Libertà”. Un grido che rivendica con forza e coraggio i diritti persi dalle donne con la rivoluzione islamica del 1979 che ha portato alla nascita di uno stato teocratico.
Un sogno che fino a questo momento ha fatto contare centinaia di morti e arresti, fra cui svariati giornalisti. Numerosi anche i casi di torture e abusi sessuali segnalati dagli attivisti ai danni degli arrestati.
Da Teheran è dilagato in tutto il Paese un processo rivoluzionario che, per la prima volta, ha coinvolto in modo spontaneo larghi strati della popolazione-insegnanti, pensionati, studenti o minoranze etnico-religiose che rivendicavano diritti e riforme con un obiettivo ben preciso: il crollo della Repubblica islamica e l’abbattimento del “regime di apartheid di genere”.
Abbattere il regime che impone l’“apartheid di genere” significa abbattere l’intero sistema della Repubblica islamica, ed è in questo senso che va inteso il simbolismo dell’hijab e la lotta contro l’apartheid di genere.
Inizialmente sono stati i giovani a mobilitarsi poi, piano piano, gli operai delle fabbriche e gli studenti universitari che sono riusciti a trascinare anche i liceali e addirittura gli alunni delle scuole medie. Basti pensare che oggi nelle piazze di tutto l’Iran mentre gruppi di adolescenti, per incoraggiare tutte le altre donne alla ribellione, si fanno fotografare mostrando il dito medio accanto ai ritratti dei mullah appesi alle pareti della loro classe.
Atteggiamento quest’ultimo che ha particolarmente allarmato il regime che ha risposto alzando il livello della repressione facendo irruzione, con la polizia morale, nei licei di Teheran al fine di assicurarsi che le “regole etiche” dell’islamismo siano rispettate. I giovani iraniani nonostante tutto non si sono fatti intimorire e sono riusciti a condividere sui social le sorti dell’#IranRevolution che – pur costituendo un evento unico nella storia iraniana – si ispira alle proteste dei mercoledì bianchi del 2018, quando giovani donne vestite di bianco bruciarono l’hijab nelle piazze di Teheran.
Un gesto che per gli ayatollah equivaleva alla blasfemia ovvero una sfida alle leggi islamiche che “per non eccitare gli uomini” impongono alle donne di coprire con un velo i capelli e di indossare vestiti lunghi e larghi.
Con i media tradizionali controllati dallo Stato, gli iraniani si sono riversati sui social come Facebook, Instagram, Telegram, Twitter e WhatsApp aggirando la censura grazie ai provider VPN: sono milioni le persone che seguono gli hashtag #MyStealthyFreedom, #WalkingUnveiled, #MenInHijab e #MyCameraIsMyWeapon.
La nuova generazione iraniana è consapevole che la vita può essere vissuta in modo diverso.
Le proteste non hanno una leadership ufficiale perché ogni manifestante; è esso stesso un leader e dunque le rivolte non si spengono e anzi si autoalimentano perché raccolgono le simpatie e il sostegno di strati sempre più vasti della popolazione. Ed è proprio per questa ragione che le forze di sicurezza fanno fatica a spegnere le rivolte.
La strategia è perlopiù quella di usare la violenza più feroce contro i manifestanti al fine di scatenare contro di loro una reazione violenta nella popolazione facendo perdere consenso ai giovani manifestanti. A pochi giorni dall’inizio del 2023 il mondo è costretto ad ascoltare notizie anacronistiche di manifestanti che vengono condannati a morte, in processi farsa, e impiccati pubblicamente perché protestano contro un regime oppressivo e liberticida.
A più di quarant’anni dalla rivoluzione islamica le speranze di giustizia sociale e liberazione delle masse dalla corruzione incarnata dal potere dello Scià Reza Pahlavi sono state tradite dal governo teocratico di Teheran che ha risposto, alla rivendicazione dei diritti fondamentali da parte dei giovani, con una serie di arresti impiccagioni e torture.
Tali eventi non solo dovrebbero indignare la società occidentale nella sua interezza ma, soprattutto, indurre alla riflessione chi, come noi, ha avuto la fortuna di vivere in paesi dove sono riconosciuti libertà e diritti.
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