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I geroglifici egizi della Stele di Rosetta furono portati a Londra come bottino di guerra
Chiuse le celebrazioni per il duecentesimo anniversario della morte di Napoleone Buonaparte la Francia si appresta a onorare un’altra importante ricorrenza, ovvero il bicentenario della decifrazione dei geroglifici della Stele di Rosetta.
Il 15 luglio 1799 nel piccolo villaggio egizio chiamato El Rashid, Rosetta appunto, sul delta del fiume Nilo, e a poca distanza dal mar Mediterraneo, l’ufficiale Pierre-François Bouchard (1771-1822) ordinò a un reparto dell’esercito di dissotterrare un’antica fortezza egizia, rinominata dai francesi Fort Julien, sulla costa settentrionale dell’Egitto. Fu allora che un soldato scoprì un blocco di granito, di circa 760 chili, che due decadi più tardi si sarebbe rivelato l’elemento chiave per decifrare i geroglifici egizi, la cosiddetta stele di Rosetta.
Bouchard riuscendo a leggere alcuni passaggi dell’iscrizione greca, comprese l’importanza della stele e la mostrò al generale Jacques François Menou, comandante della piazza di Rosetta, che ordinò di realizzare subito delle impronte dell’iscrizione e di scortare il reperto al Cairo, presso l’Institut d’Égypte, fondato da Buonaparte nel 1798, per svolgere ricerche scientifiche durante la campagna militare e sottoporlo all’esame degli studiosi francesi.
Lì gli studiosi cominciarono ad analizzarla e fu subito chiaro che le tre epigrafi altro non erano che tre versioni differenti di uno stesso testo; un decreto sacerdotale in onore del faraone Tolomeo V, datato 196 a.C.
Il testo riporta tutti i benefici resi al Paese dal faraone ovvero le tasse da lui cancellate e la conseguente decisione dei sacerdoti di erigere in tutti i templi d’Egitto una statua in suo onore e di promuovere numerosi festeggiamenti. La decisione che il decreto venisse pubblicato sulla stele, nella scrittura delle “parole degli dei” (geroglifici), nella scrittura del popolo (demotico) e in greco.
La scoperta generò entusiasmo nell’ambiente scientifico.
Sebbene nessuno dei tre testi fosse completo, la parte superiore della Stele, di quattordici righe, era formata da geroglifici egizi – usati per i testi incisi sui monumenti o in atti di particolare importanza – di cui non si conosceva più il significato.
La parte centrale era scritta in demotico, una lingua usata per scrivere i documenti ordinari; la parte inferiore, invece, conteneva cinquantaquattro righe in greco antico, lingua ufficiale della dinastia tolemaica d’Egitto.
Nel frattempo i Britannici, consapevoli del valore del ritrovamento, all’indomani della capitolazione dell’Armée d’Orient ad Alessandria portarono la stele di Rosetta a Londra come bottino di guerra (ancora oggi possiamo leggere su un lato del reperto la scritta Catturata in Egitto dall’Esercito Britannico 1801) a re Giorgio III.
Da allora è conservata al British Museum di Londra dove le iscrizioni furono colorate in gesso bianco, per favorirne la visione al pubblico (fortunatamente oggi la Stele è stata riportata ai suoi colori originali ed è stata rinchiusa in una teca di vetro molto grande, n.d.r.).
La storia del fortunoso ritrovamento è narrata in occasione del bicentenario, della morte di Napoleone Buonaparte, dal direttore del Centre des Études du Moyen–Orient (Cemo) di Parigi, Ahmed Youssef che ha pubblicato la biografia e il diario di guerra dell’ufficiale napoleonico che scoprì la Stele.
Il volume si intitola “Le capitaine Bouchard, cet inconnu qui a découvert la pierre de Rosette Suivi de Journal de guerre inédit” e ci racconta che il merito della decifrazione definitiva dei geroglifici fu del francese, Jean-François Champollion (1790-1832) che, attraverso la comparazione dei testi, riuscì a penetrare i segreti dell’antica scrittura egizia.
Per riuscire in tale impresa Champollion si avvalse non solo della conoscenza del copto, che aveva appreso in gioventù, ma anche delle ricerche che Thomas Young, scienziato ed egittologo inglese di grande fama; nel corso degli anni precedenti aveva decifrato, tra i geroglifici, il nome di Tolomeo V Epifane.
Fu così che Champollion vinse la gara per la decifrazione della Stele di Rosetta: servendosi della scoperta di Young, decifrò il nome di Cleopatra I e, per deduzione logica, comprese che i nomi di Tolomeo V e Cleopatra I, essendo sovrani stranieri, dovevano essere scritti nello stesso modo in cui si pronunciavano.
Vide che i nomi di Tolomeo e Cleopatra avevano dei segni in comune, corrispondenti alle lettere P, T, L, O, A. Confrontò questi segni comuni con il demotico, e con il greco e trovò la corrispondenza tra i segni fatti di figure, simboli e suoni che componevano la scrittura geroglifica.
Apparve chiaro che i geroglifici avevano un valore fonetico e ideografico che era andato perso nel corso del tempo.
In tal modo furono svelati i geroglifici e il testo della stele di Rosetta: si trattava di un decreto dei sacerdoti di Memfi del 196 a.C., dedicato al faraone Tolomeo V Epifane che aveva avuto il merito di ristrutturare il tempio del dio Ptha a Memfi.
Il 27 settembre 1822 Champollion resa nota la sua scoperta pubblicando la Lettre à M. Dacier. Seguirono due viaggi in Italia – tra il 1824 e il 1826 – per applicare il suo metodo ai reperti che re Carlo Felice di Savoia aveva appena acquistato dal console di Francia Bernardino Drovetti.
Si trattava di esaminare una grande raccolta di antichità provenienti dall’Egitto contenenti un corpus molto vasto di testi scritti. Si trattava del banco di prova definitivo per validare l’efficacia scientifica del suo metodo di lavoro. A capo della spedizione scientifica franco-toscana, seconda in ordine di tempo solo a quella napoleonica, c’era Ippolito Rosellini, “padre dell’egittologia italiana”.
Champollion poté visionare una sola volta la collezione sabauda tra il 1828 e il 1829, prima che una morte prematura ponesse fine alla sua brillante carriera. Si chiudeva idealmente un cerchio che aveva avuto origine dalla spedizione napoleonica in Egitto trent’anni prima e dalle cui ceneri era rinata, “come una fenice, la civiltà faraonica”.
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