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Esiti altalenanti nella composizione negoziata

Giornalista, Dottore Commercialista
Revisore Legale dei conti
Docente e formatore Crisi d’impresa

La questione degli esiti positivi della composizione negoziata e della possibilità di ammettere un piano meramente liquidatorio si arricchisce di nuovi contributi giurisprudenziali che minano il pur labile convincimento che si era ricavato soprattutto dalla lettura della relazione illustrativa. In questi termini (si veda Composizione negoziata con strumenti tipici alternativi agli altri istituti del 18.12.2024) si era giunti alla conclusione, seppur con fondati dubbi, che tutti gli exit previsti dall’articolo 23 CCII potessero considerarsi come esiti positivi, posto che la composizione negoziata “non deve essere vista come uno strumento che ha esito positivo solo se ed in quanto porta ad una delle soluzioni di risanamento di cui al comma 1 o al comma 2, lettera b)” e che, invece, “anche gli eventuali sbocchi giurisdizionali, infatti, vanno considerati come risultati positivi della composizione che, rispetto ad essi, è chiamata a svolgere un ruolo preparatorio tale da garantire ristrutturazioni più rapide ed efficienti”. Non senza evidenziare la contraddizione legata alla circostanza che, in considerazione della condizione principale ed assorbente dell’incipit dell’art. 23 CCII, il vero “esito positivo” andava piuttosto ricercato esclusivamente in quelle ipotesi capaci di garantire il superamento delle “condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza” e solo nei casi in cui “risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”.

Su questo ragionamento si innestano due orientamenti giurisprudenziali di tenore radicalmente opposto.

Il primo in ordine temporale (Trib. Mantova 04.12.2024) propone una lettura più ampliata, ritenendo la composizione negoziata astrattamente compatibile anche con un piano di natura sostanzialmente liquidatoria, in ciò facendo leva sul tenore dell’art. 12, co. 2, CCII (in base al quale la continuità indiretta costituisce solo uno dei modi per conseguire il risanamento della impresa), nonché sulle modalità di calcolo del test pratico (che tiene conto dei proventi della cessione dei cespiti di impresa) e sulla stessa configurabilità della composizione negoziata di impresa insolvente, desumibile dall’art. 25 quinquies CCII e riconfermata nei chiarimenti della lista di  controllo.

Più articolata è la diversa valutazione offerta dal Tribunale di Bologna nel provvedimento del 30.04.2025, il quale giunge a conclusione diametralmente opposta dando atto che “la composizione negoziata non rappresenta un percorso cui può avere accesso un soggetto imprenditoriale che intenda proporre un piano interamente liquidatorio con cessazione definitiva dell’attività e dismissione disgregata degli assets aziendali, neppure laddove tale soluzione comporti una proposta migliorativa per i creditori rispetto all’alternativa liquidatoria giudiziale.”

Le conclusioni si fondano su un articolato ragionamento che parte dal considerare come il “risanamento dell’impresa”, richiamato all’art. 12 CCII, definisca un ambito ben diverso da quello di ristrutturazione delle passività, poiché fa riferimento al ripristino di un equilibrio economico finanziario che si attaglia all’impresa in funzionamento, con la conseguenza che lo scopo finale non è la mera ristrutturazione del debito esistente, ma la possibilità di prosecuzione dell’attività imprenditoriale, sia essa in forma diretta o indiretta. A tal fine viene richiamato il precedente del Tribunale di Verona del 10.03.2025 a mente del quale “all’imprenditore è richiesto di elaborare un vero e proprio piano industriale di risanamento in ottica di continuità dell’attività di impresa e non certo un semplice piano di dismissione dei propri beni finalizzato solo ad acquisire le risorse per garantire una soddisfazione almeno parziale ai creditori, con mera ristrutturazione del debito e senza alcuna realistica e fondata prospettiva di prosecuzione dell’attività di impresa”. In questo senso necessita, allora, distinguere gli “strumenti di regolazione della crisi” da quelli “volti alla liquidazione del patrimonio”, “rendendo evidente la differenza tra “risanamento dell’impresa” e “liquidazione del patrimonio” e ciò proprio al fine di recepire la definizione di “ristrutturazione” contenuta nell’articolo 2, paragrafo 1, numero 1, della Direttiva Insolvency”.

Il giudice felsineo si preoccupa, infine, anche di interpretare l’apparentemente incongruo tenore della Relazione Illustrativa specificando che la modifica normativa “non mira a equiparare ai fini dell’accesso alla cnc l’impresa in funzionamento o che possa comunque essere risanata a quella destinata alla mera liquidazione atomistica, ma solo a esplicitare che il percorso può concludersi con l’accesso a qualsiasi strumento di tipo giurisdizionale anche a stampo liquidatorio (il concordato semplificato lo è sicuramente) e che tale risultato non deve leggersi come un fallimento del percorso stragiudiziale, perché comunque avrà agevolato e razionalizzato anche l’eventuale concordato con cessione dei beni”.

Tommaso Nigro
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